domenica 2 novembre 2008

Un tal Lucas*



Man mano che ci si avvicina alla cordigliera delle Ande, il versante argentino della Patagonia diventa di un verde sempre più intenso, come se il fogliame degli alberi sopravvissuti alla voracità dell’industria del legno volesse dirci che, nonostante tutto, la vita è possibile, perché ci sarà sempre un pazzo o molti capaci di vedere più in là del naso del profitto.

Uno di questi è Lucas, o un tal Lucas, come lo chiama la gente che vive vicino al lago Epuyén.

Quando, circa trent’anni fa, i militari argentini presero il potere con un colpo di stato e instaurarono una terribile e crudele dittatura, Lucas e un gruppo di ragazze e ragazzi scapparono da Buenos Aires e cercarono rifugio nella lontana Patagonia.

Erano gente di città, studenti, artisti e molti di loro non avevano mai visto un attrezzo agricolo, ma vi si trasferirono ugualmente portando con sé i propri libri e dischi. Avevano una sola idea in testa: azzardarsi a ideare e a mettere in pratica un modello di vita alternativo, diverso, in un paese in cui la paura e la barbarie imperversavano.

Il primo inverno (come tutti gli inverni della Patagonia) fu duro, lungo e terribile. I loro tentativi di coltivare la terra andarono a vuoto e non ebbero nemmeno il tempo di proteggere le loro capanne dal vento gelido che s’infilava da tutte le parti.

I ragazzi si trovarono così ad affrontare un nemico ignoto e imprevedibile. Ma nonostante i loro discorsi e le loro buone intenzioni non arrivarono a niente.

Un giorno, quando le scorte di legna cominciarono a scarseggiare, alcuni uomini, dai gesti lenti, si presentarono in quelle capanne malandate e, senza tanti discorsi, scaricarono la legna, accesero le stufe e tapparono le fessure delle loro capanne.

Lucas li ringraziò e poi chiese loro perché si davano tutta quella pena.

«Perché fa freddo; perché sennò?» rispose uno dei salvatori.

Quello fu il primo contatto coi paesani della Patagonia. Poi ce ne furono altri e altri ancora e pian piano i ragazzi impararono i segreti del vivere in quella bella ma impervia regione.

Trascorsero così i primi anni. Le capanne divennero solide e accoglienti, le terre divennero orti; furono costruiti ponti e strade nuove. Lucas e i suoi compagni si trasformarono in veri e propri custodi dei boschi.

Nel 1985 anche la regione del lago Epuyén vide arrivare le spietate motoseghe che cominciarono a tagliare sterminando lecci, roveri, querce, castagni… alberi di oltre trecento anni, senza pietà. Tutto finiva nelle fauci della trituratrice, che trasformava il legno in schegge e segatura facile da trasportare in tutto il mondo. Il deserto cominciava a prendere piede.

Nessuno sembrava capace di opporsi a tale sinistro rumore delle motoseghe. Ma Lucas, un tal Lucas, disse no, e decise di parlare in nome dei boschi per conto di tutta la popolazione.

«Perché vuoi salvare il bosco?» gli chiese qualche paesano.

«Perché bisogna farlo. Perché sennò?» ribatté Lucas.

Così, sfidando qualsiasi ostacolo e sopportando minacce, pestaggi, arresti, diffamazioni, nacque il progetto Bosco.

A Buenos Aires li chiamano «quegli hippy di merda che si oppongono al progresso», ma nei pressi del lago Epuyén la gente li appoggia perché un’elementare saggezza indica che la difesa della terra è la difesa degli esseri umani che la abitano.

Ogni albero protetto, ogni albero piantato, ogni seme curato significa salvare un secondo del tempo senza età della Patagonia e del mondo. Forse domani il loro progetto diventerà un grande corridoio di foresta autoctona lungo quasi 1500 chilometri. Forse domani gli astronauti dallo spazio potranno vedere una lunga, splendida linea verde accando alla cordigliera delle Ande.

Allora, forse, qualcuno dirà loro che tutto ciò ha avuto inizio da Lucas, un tal Lucas, un paesano di Epuyén, laggiù in Patagonia.

* libero adattamento del racconto omonimo di Luis Sépulveda.

Tale racconto è stato interpretato dalla mia classe (una quinta elementare) lo scorso giugno. Venne fuori un bello spettacolo. Uno di quei momenti che mi fanno amare il mio mestiere. E qui colgo l'occasione per ringraziare pubblicamente Giulio Bencini, operatore teatrale della Ruinart, dal quale è partita l'idea di questo superbo lavoro.


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