Lui la prese nel momento stesso in cui lei si lasciò prendere, la parola, e lei si concedette, anima e corpo. Lui sillabò. Lei ristette, sentendosi soffiare addosso un alito caldo, di rosmarino.
«Che caro, forse mi ha scambiato per una patata arrosto», pensò e non fece in tempo a dirlo che si sentì addentare e poi sciogliere in palatali sino allo sfinimento, alla trasformazione del significante in bolo che inizia il percorso inesorabile della digestione.
«Attento che non ti vada a traverso!», lo avvertì, muta, un attimo prima che un colpo di tosse gli ricordasse che non si dicono altre parole mentre se ne pensa una, perché la parola è gelosa custode di quello che si ha da dire, anche quando non si ha molto da dire, quasi niente. La parola vuole attenzione esclusiva, non un corteggiamento vano, fine a se stesso. Pretende il senso che gli si dà e solo allora si manifesta nella sua pienezza, nella sua tanto attesa nudità. La parola e l'essere fanno un tutt'uno, anche perché il mondo senza parole non esisterebbe: niente sarebbe se parola non fosse a indicarne l'esistenza.
«Adesso siedi e fa' di me chilo», gli sussurrò. E un sonno a piombo lo assalì, mentre leggeva Giovanni, faccia al primo sole tiepido d'aprile.
3 commenti:
Che bello! Io vorrei fare un brindisi a questo rutto che sa di vino, ma non trovo la palabra borracha. Give me the verbum and I will drink it.
Grazie mille, Sam, del primo commento in esperanto che ricevo 😉
alka seltzer
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