martedì 11 giugno 2013

Un minuscolo e velocissimo grillino


«Mi pavoneggiai; girai lentamente su me stesso, alto come una montagna, visibile a miglia di distanza, facendo ruotare il cerchio del manto, tintinnare le fibbie, scalciare e fulminare gli sproni. Mi feci un cavallo a dimensione di un macigno, e percorsi vociando e nitrendo le pianure, estrassi spade e librai lance, inventai giganti che uccisi e disfeci in nebbia. Mi circondai di trombe e di violini, mi mossi con attori, maschere, burattini, animali da circo, esseri mirabilmente deformi, risi sgangheratamente, mi diedi manate su gigantesche cosce di metallo, fui luminoso come un gong grande come il sole e capace di affrontare lo sguardo. Feci correre cani, simulai gare, e gridai, sempre scrutandomii attorno, in cerca dell'altro. Più di una volta lo intravidi, non più: minuscolo e velocissimo. Ma nulla che mi facesse credere fosse affascinato da quella grandigia demente».

Giorgio Manganelli, Agli dèi ulteriori, Einaudi, Torino 1972.

E così il blogger più famoso e seguito d'Italia, fondatore, insieme all'impresario Casaleggio, del M5S, per replicare a una senatrice del movimento che lo ha criticato circa la sconfitta elettorale alle ammistrative, domanda ai suoi lettori e sostenitori, se è lui il problema o se invece sono i minuscoli e velocissimi parlamentari grillini che, sembra, osano acquisire una certa autonomia di pensiero critico nei confronti del loro mentore supremo.

Trovo divertente la faccenda, perché un blogger, di solito, una domanda del genere «sono io un problema?» se la pone ogni spuntar di luna, ma - appunto - la pone a sé per tentare di dare risposta ai consueti disagi esistenziali che costellano la vita di un pensatore dilettante.
Invece Grillo pone la domanda al suo pubblico (la Rete) perché ha voglia di farsi dare ragione da questo, dalla moltitudine, non gli basta la sua di convinzione di essere - come egli crede indefessamente - nel giusto.
E se dai suoi commentatori emergesse che, inaudito! - fosse veramente lui il problema, avrebbe il coraggio di risolversi?

Pit Stop

Photo Brian Duffy The Pirelli calender, 1973

Quarant'anni fa Pirelli aveva una maggiore aderenza nelle curve.

Mi viene voglia di fare un inciso



«Quando il capo non è in campo personalmente, con il suo nome sulla scheda e la sua faccia in tv, il Pdl annaspa»

Vero: la faccia (a merda) al party del Colosseo non è stata sufficiente.

N.B.
Il titolo si riferisce a quanto dice B. a 2'35".

lunedì 10 giugno 2013

400 blog senza adesivi

«400 blog con l'adesivo del Fatto Quotidiano sono il Fatto Quotidiano. Il lettore li percepisce come Fatto Quotidiano». Leonardo Tondelli

Sarà forse per questo che, dei quattrocento, io non ne seguo nemmanco uno? Ma non solo perché sono del Fatto Quotidiano: io, a parte alcune meritevole eccezioni (Giglioli, per esempio), non seguo alcun blogger che scrive sotto l'egida di un giornale importante, perché il blog dev'essere indipendente da tutto, giusto la piattaforma che ne consente in modo neutro (non so fino a che punto) la pubblicazione, e poi via, avanti, si facciano le pubblicazioni io sposo l'idrolitina del cavalier cazzoni.

Vedete a cosa serve uno spazio personale che non deve sottostare, per principio, a qualche censura? Anche lo scrivere cazzate come quella sull'idrolitina, per esempio, se io fossi un blogger che scrivesse per il Fatto non avrei potuto scriverla, me la sarei dovuta ingoiare; invece a me piace buttare (quasi) tutto fuori, l'autocensura avvenga su basi nobili, non su quelle ignobili, tipo trattenersi per ragioni di decoro di testata.

A cosa servono Quattrocento blog e, in fondo, chi davvero si perita di seguirli tutti perché hanno un determinato sigillo editoriale? Non lo so, ma io, contrariamente a Leonardo, mi sforzo di credere che non esista il lettore medio, io non ci penso ne esista uno al quale rivolgersi in determinati modi che solletichino il suo essere nella media, se dovessi scrivere pensando al lettore medio gli farei il dito medio,
- Maestro, Peter mi ha fatto il terzo dito.
- Quale sarebbe?
- Questo.
- Bene, rifaglielo.
«Quando pubblicare – l’atto di rendere pubblico qualcosa – smette di essere complicato e diventa facile, la gente abituata al vecchio sistema spesso considera la pubblicazione da parte di dilettanti frivola, come se pubblicare fosse un’attività intrinsecamente seria. Peccato che non lo sia mai stata. La pubblicazione andava presa sul serio quando i costi e l’impegno richiesto costringevano la gente a prenderla sul serio – se commettete troppi errori fallirete, proprio come nel Cinquecento. Ma se questi fattori scompaiono, allora scompare anche il rischio. Un’attività che sembrava intrinsecamente preziosa si è rivelata solo accidentalmente preziosa, come ha dimostrato il cambiamento nel sistema economico.» Clay ShirkySurplus cognitivo, Codice edizioni 2010, p.45 
La citazione di sopra è presa da un Bimbo Sumero restato un paio d'anni sotto la sabbia - adesso è felicemente riemerso con un post che invito a leggere e dal quale prendo spunto per lanciare una definizione (abborracciata) di blogger come colui, o colei, che, dopo aver raccolto “dati” tutta la vita, sente l'urgenza di esprimere/pubblicare la sua visione (un modo più raffinato per dire che ha voglia di sparare cazzate in pubblico).

In fondo rendere pubblico qualcosa non è più complicato, anche per gli analfabeti di ritorno pubblicare non è mai stato così facile: c'è spazio per tutti. In fondo, quand'anche pubblicisti professionisti, dalle loro postazioni editoriali, scrivono banalità e insulsaggini, è giusto - per chi non s'accontenta, a chi sta stretto il ruolo di lettore medio - provare a dar aria alle parole facendole uscire dalla gabbia dei luoghi comuni del pensiero confezionato apposta per rincoglionire.

È finita un'era di stronzini.


«L'orda barbara della sinistra non si ferma mai». Sarà, ma è la prima volta che, nel radicchio, vedo prevalere il rosso.

domenica 9 giugno 2013

La pioggia di giugno

Oggi mi sarebbe piaciuto avere un fucile per sparare alle dispettose nuvole che hanno orinato pioggia tutto il pomeriggio. Ma il fucile non ce l'ho e allora ho sparato questi versi.

La pioggia di giugno affoga i pensieri
li tiene sott'acqua come balenotteri
che stanno in apnea giorno e notte -
poi tornano a galla a respirare alteri.

Come fosse una cosa normale stare
giorni e giorni sotto una pioggia che pesta
i suoi milioni di piedi sulla nostra testa
e non sappiamo contro chi o cosa protestare.

Se piovesse pelo tagliato dall'estetica
di ascelle, gambe e pubi muliebri
l'aria sarebbe cento volte meno umida

E senza bisogno d'indossar costumi
faremmo festa, saremmo lieti ed ebbri
di qualcosa che non bagna ma solletica.

Acquisterebbe così senso la domenica
ché svanirebbero le febbri
di nostra crisi isterica.

Li ho spediti anche a Giulio Mozzi, qualora li ritenesse degni della serie (Tipi umani) da lui meritoriamente inaugurata.

venerdì 7 giugno 2013

Non c'è tempo per essere tristi

Mi chiedi perché non sono triste: perché ho fatto quasi tutto per essere felice e con somma presunzione mi dico che più di così non riesco a fare, non posso - non voglio, sarebbe più il caso di dire: sono questo, non voglio abbandonarmi alla tristezza perché con essa mi negherei la suggestione di stare bene qui e ora, di stare facendo la cosa giusta, di essere in viaggio nella mia navicella terrestre, ancora sulla traiettoria del mio debole immaginare, con due o tre obiettivi minimi realizzati a cominciare dal non essere, sinora, rimasto vittima di alcuna vocazione (religiosa, politica, culturale), sino ad avere avuto la fortuna di non essere costretto a vendere la mia forza lavoro (diventando schiavo del mio lavoro e di chi lo compra).

Vedi, una volta diventavo triste per niente, perché sovente mi capitava di sentirmi fuori luogo, fuori tempo, fuori da una vita che mi sembrava desiderabile. Cioè, non è che ora possa salire in cattedra e dare lezioni di eudemonologia: non mi permetto, anzi per quanto posso evito di diventare modello (ovvero scandalo) di coloro che potrebbero - prendendo un abbaglio notevole - ritenermi degno di ammirazione. 
Forse cedo poco alla tentazione della tristezza perché ho accettato i miei limiti e le mie debolezze senza farne vanto, né accanirmici contro come fossero malattie dalle quali necessariamente guarire. Avendo una naturale propensione all'infingardaggine, ho tenuto bassi i desideri per non farli cozzare contro un tasso di volizione che avrebbe fatto invidia a Schopenhauer.
E poi: non sono triste perché ho il vizio frequente di autoassolvermi; inoltre, godo di un confortevole spazio/tempo dove posso coltivare solitudine controllata - come se, sotto sotto, avessi in animo di diventare un saggio.

Cosa penso della mia vita futura? Penso a spingerla in là nelle stagioni a venire, a vedermi decadere, quattro ossa che già cominciano a scricchiolare se le sottopongo a falsi e bruschi movimenti. 
Ci pensavo proprio oggi, sotto il sole, guardando la foto di uno scrittore americano che, nel 1976, aveva 45 anni:

Come mia madre. E io ne avevo 9. E guardo mia figlia minore che ne ha dieci e io un anno più di mia madre e dello scrittore di cui sopra. E cerco in tutti i modi di ricordare cosa facessi nel giugno di quell'anno, in una certa piazza, sicuramente sgombra di auto parcheggiate, a tirare calci a un pallone insieme a tutti gli altri miei coetanei del paese. E tornavo a casa sudato e contento di sapere che domani sarebbe stato l'ultimo giorno di scuola. E, vinto dal sonno, desideravo ancora una volta poter infilarmi nel lettone dei genitori ma è caldo, fa la mamma, dài, vai da solo nel lettino, ché tra poco torna tuo fratello. E le lenzuola che grattano pulite. E la canottiera con le costine e i primi segni dell'abbronzatura. E penso a chissà come sarò io quando avrò l'età di mia madre ora e così anche a mia figlia che avrà la mia età attuale. In tutto questo scorrere di anni avanti e indietro non c'è spazio per la tristezza. C'è lo spazio per indossare una canottiera come allora e per andare sotto il sole ad abbronzarmi leggendo Ragtime. E magari ballare da solo.

A ora insolita

Di passaggio a ora tarda per dire che ho fatto tardi, giornata intensa conclusa con una festa alla quale ero invitato, avevo fame ma c'erano pietanze cariche di pepe e, inoltre, il secondo era composto soltanto di carne e patate fritte: chissà cosa sognerà la mia digestione. 
Ho bevuto molta acqua delle Alpi Cozie nonostante fossi in riva all'Arno (che umido).
Ho ricevuto anche un regalo, insieme alle colleghe, per ragioni che ora non importa dire: un portafoglio in pelle di Prada, senza soldi dentro. Per fortuna è nero, ché se fosse stato rosso, mi sarebbe presa la tentazione di mettermelo a un piede, in memoria del Papa emerito.

mercoledì 5 giugno 2013

L'uno, l'altra e viceversa

foto di Eugenio Recuenco
Tempo fa avevo un'amica. Con questa amica ci si scriveva. Scriversi era l'unico mezzo per conoscersi, dato che non ci conoscevamo di persona. Tuttavia, sapevamo che persone eravamo, l'uno per l'altra e viceversa, perché mediante la scrittura si riesce a manifestare ciò che si è più di quanto si riesca di persona. Scrivendosi si capisce subito se c'è sintonia, se c'è empatia, se c'è condivisione. Di persona, invece, prima di capirlo - salvo rari casi, di fatto eccezionali - si traccheggia sempre prima di entrare in contatto, si fanno mille moine, si gioca di pedina, prima di aprirsi e tentare un affondo passa tutta la fantasia. Così io e questa amica, entrambi desiderosi di entrare in comunione con una persona nuova che prima non conoscevamo, dopo poche lettere, meglio: dopo poche mail, siamo diventati così intimi e confidenti che pareva ci fossimo conosciuti da sempre, intuendo, l'una dell'altro e viceversa, le vicende che ci andavamo raccontando prima che ci fossero narrate, di come, cioè, le rivivessimo in una sorta di déjà vu.
Quante lettere, quanta vita trascorsa a leggere tali lettere abbiamo passato noi due. Vivevamo entrambi dentro le parole che ci scrivevamo. Eravamo onnipresenti durante il giorno, grazie anche a questi nuovi moderni mezzi di comunicazione che ci connettono praticamente in diretta e ovunque, senza tante attese né la mediazione dei servizi postali della nazione.
Ci si scriveva e ci si leggeva, rapidi, e subito si coglievano i pensieri dell'altro ben più profondamente di quanto possano fare, che ne so, due colleghi di lavoro che si parlano di lavoro, due amici che si incontrano in pizzeria, due coniugi che, stanchi, la sera rincasano e si chiudono ognuno dentro la propria privata voglia di riposare.
Quante parole, quante emozioni scambiate, a volte, anzi spesso, anche via chat! Ci sentivamo così vicini che, a volte, io perlomeno, ma credo che anche lei dato che me lo confessava, mi trovavo ad abbracciare la tastiera sulla quale anche adesso sto scrivendo: la sollevavo e la stringevo a me, sul petto, come se essa trasmettesse una specie di calore umano, quello delle mie dita, senz'altro.
Io e questa mia amica ci siamo scritti a lungo, per quasi due anni, sempre con la stessa intensità. Nondimeno, non ci siamo mai conosciuti di persona, per ovvie ragioni, la prima - e la più importante - è che sapevamo che, incontrandoci, non saremmo stati capaci di sillabare una sola parola di quelle che ci dicevamo. Nelle lettere, sovente, ci scappava persino la parola amore, figuriamoci, dunque. Amore? Amore dello scrivere, dello specchio riflesso dallo schermo di parole che ognuno scriveva per l'altro, sì, ma soprattutto per sé. Entrambi, infatti, eravamo consapevoli che ci scrivevamo soltanto per amare noi stessi: questo era lo scopo, mica altro. Potevamo noi darci appuntamento in non so dove, il tal giorno alla tal ora e incontrarci? Giammai. Certo, ce lo promettevamo, e tutte le volte, a turno, l'uno, l'altra e viceversa, trovavamo delle scuse per non essere andati all'appuntamento, tanto sapevamo che l'altro o l'altra non sarebbe stato presente - ma era così bello, così eccitante promettercelo, immaginarlo, andare a letto con l'agitazione giusta che impediva di addormentarsi tranquilli nel tepore solito del proprio letto consumato. Io mi ricordo perfettamente quelle notti passate a cercare di tenere ferma la fantasia, costringendomi a dormire in una posizione che poco mi si confà, prono, con la guancia destra a premere sul lenzuolo (quanti torcicollo). E la mattina seguente, prima ancora di prepararsi il caffè, correre al pc per vedere che invece della mail di conferma, ce n'era sempre una di disdetta, che a turno ci peritavamo di scrivere, per ripartire equamente le responsabilità.
Io e questa mia amica ci volevamo bene,  un bene dell'anima, ci raccontavamo i nostri sogni, i nostri desideri, le nostre speranze. Ci aiutavamo nei momenti d'incertezza e di sfiducia, facendoci reciproca forza. Stavamo così bene a scriverci insieme quando, improvvisa, è sorta una comune rottura di palle, una noia reciproca sì intensa e pervicace che, nel giro di due mail, ci siamo detti addio. Eravamo stanchi, l'uno dell'altra e viceversa. Non sapevamo più cosa scriverci, avendo esaurito tutto il vasto repertorio di sentimenti di amicizia e amore che, normalmente, una persona di media sensibilità possiede. E per rendere l'addio più definitivo e irreversibile, ognuno ha trovato una scusa efficace: lei mi ha fatto scrivere da un'amica che, per suo tramite, m'informa che lei ha perso la memoria e non si ricorda più ch'io sia; io, invece, ho risposto all'amica che le riferisse che, dopo una crisi spirituale repentina, mi sono chiuso in un convento e mi sono fatto frate. 
Io e la mia amica abbiamo smesso così d'essere amici e siamo diventati due perfetti sconosciuti.

martedì 4 giugno 2013

Viene salvaguardata la proprietà

«Spesso mi fanno questa domanda: Come mai le masse si permettono di farsi sfruttare dai pochi? La risposta è: Lasciandosi persuadere a identificarsi con loro».

E. L. Doctorow, Ragtime, ( New York [?] 1974), Mondadori, Milano 1976 (traduzione di Bruno Fonzi).

Le tecniche di persuasione sono diverse tra Stati democratici e Stati autoritari, anche se - alla base - la propaganda di regime si prefigge lo stesso scopo: convincere la massa degli sfruttati che soltanto un tipo di organizzazione sociale è possibile, quella che divide nettamente i proprietari dei mezzi di produzione (i “legittimi detentori“ del capitale) da coloro i quali, invece, non hanno altro da vendere (per campare) che la propria forza lavoro.

Un esempio di compenetrazione totale della persuasione borghese lo offre il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato (è del Pd, vero?) il quale - circa il commissariamento dell'Ilva - si esprime così:
 «"Non siamo in presenza di un esproprio. I proprietari rimangono gli stessi, finito il periodo di commissariamento, i soci proprietari rimarranno proprietari", ha spiegato il ministro osservando che i Riva detengono una quota del 36-37% della società finanziaria e ne sono i soci di riferimento. Tutti i poteri sono in mano al commissario straordinario, "non è sospeso tuttavia il diritto della proprietà di vendere, viene salvaguardata la proprietà", ha detto ancora il ministro.»
«I soci proprietari rimarranno proprietari» anche qualora la magistratura italiana comprovasse, nei tre gradi di giudizio, le accuse che hanno determinato il commissariamento? E ancora: i proprietari commissariati (alcuni latitanti, altri ai domiciliari) hanno il diritto di vendere il pacchetto azionario che detengono? E a chi? Secondo me dovrebbe farsi avanti lo Stato pagando 0,00001 € ad azione ai Riva per riprendersi, legittimamente, quello che un tempo era suo (e che vendette a prezzo di comodo sotto la spinta ideologica delle “liberalizzazioni”).

lunedì 3 giugno 2013

La fame del magnate

Oggi, in appello, è stato condannato un magnate. Te magna.
Mi ha colpito cosa ha detto il suo avvocato italiano dopo la sentenza:
«Adesso quale imprenditore straniero investirà in Italia? Schmidheiny investì molto sulla sicurezza, spese 75 miliardi dell’epoca e non ne ebbe profitto. Ora è stato condannato 18 anni. È un incentivo?».
Ora, lasciando per un attimo da parte il fatto che è da un po' di anni che gli imprenditori stranieri non investono in Italia (per varie ragioni, sia perché impediti dalla “politica”, vedi i casi Alfa Romeo ed Alitalia; sia perché preferiscono comprare aziende italiane già qualificate in campo internazionale, vedi la Nuova Pignone), quanto è ragionevole ritenere che la suddetta sentenza allontani il capitale straniero dall'Italia? Solo in un caso, ben individuato dal pm Guariniello, il quale ravvisa che, tale sentenza,
«è un punto di riferimento per tutte le cause di disastro ambientale. [Essa] può aprire prospettive anche per l’Ilva di Taranto, per la Francia (dove sono aperte altre cause sugli effetti dell’amianto sulla salute, ndr) e per altri casi simili in Italia e nel Mondo».
In altri termini, i capitalisti (stranieri e non) cominceranno a preoccuparsi (un pochino, certo) solo se un gigante come l'Ilva finirà per essere nazionalizzato, ovvero espropriato per ripagare lavoratori e città di Taranto dei danni provocati dalla più grande acciaieria d'Europa: che il profitto sia reincanalato in un ciclo virtuoso di reale beneficio e progresso della società e non di rimpinzamento di una manica di pezzi di merda ingordi che fuggono all'estero. Ma io sogno.
Riuscirà un potere dello Stato, quale la Magistratura, nel suo esercizio specifico di far rispettare le leggi che lo Stato stesso si è dato, a spaventare davvero il capitale? Abbi dei dubbi, tu.

Non date retta ai leccafiche

Premesso che ha ragione Ivo Silvestro sostenendo che «forse è meglio che le celebrità stiano zitte», io domani mattina mi presento all'ufficio brevetti a depositare un modello (improvvisato con dei palloncini per bambini) di preservativo per la lingua. Alla fragola, al limone, al tantum verde.
foto presa qui
P.S.
La redazione del Corriere online riporta la notizia citando le parole di Micheal Douglas:
«ho scoperto che, senza entrare troppo nello specifico, la particolare forma di tumore che mi ha colpito è stata causata dall’Hpv (o Papilloma Virus, ndr), che ho contratto praticando il cunnilingus (la stimolazione con la lingua e con la bocca degli organi genitali femminili***) che però è anche la miglior cura per esso. Come dire, ti dà e ti toglie».
***Ecco, per capire, la seconda parentesi di spiegazione su cosa sia il cunnilingus è data dallo stesso Douglas oppure anch'essa è di “redazione”? 
Nella mia ignoranza, sarebbe stato meglio spiegare cosa intende Douglas con il fatto che tale pratica orale sia, allo stesso tempo, causa e cura del male che ha contratto: in altri termini, io non ho capito se sia una battuta (peraltro infelice) oppure un dato medico-scientifico che leccare una vagina infettata di Hpv faccia male e bene allo stesso tempo.

domenica 2 giugno 2013

Il proprio foro interiore

«La libertà religiosa vuol dire alla fine null'altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore.»
In un primo momento ho pensato al buco del culo, poi mi sono ricomposto e sono addivenuto ad altre considerazioni.
A quanto mi è dato d'intendere, le preoccupazioni di Ernesto Galli Della Loggia si vogliono liberali poiché tentano di difendere la libertà di religione che è uno dei fondamenti dell'Europa moderna: ma com'è premuroso il nostro politologo!
Perché delle libertà minacciate che egli elenca io non vedo alcuna minaccia alla libertà di fede? Sono prevenuto? Sono politicamente corretto? Vediamo.
Non conosco la materia del concordato tra Stato e Chiesa in Irlanda, ma se il primo “obbliga” la seconda ad affittare a chi ne fa richiesta i locali, eventualmente anche per i matrimoni omosessuali, vorrà dire che, presumibilmente, la chiesa irlandese avrà dei benefici sulla tassazione degli immobili.
Inoltre, non ho visto il concerto del Primo Maggio e non mi sono accorto dello scandalo del cantante che ha esibito un preservativo come fosse un'ostia consacrata: ma davvero questo fatto ha urtato la sensibilità dei cattolici italiani? Di quanti poi, visto che la Rai, subito dopo la sceneggiata, ha mandato la pubblicità per oscurare l'esibizione del gruppo? Quale libertà in questo caso è stata più minacciata e offesa?
E ancora: in Danimarca lo stato obbliga la Chiesa luterana evangelica a celebrare i matrimoni omosessuali nonostante un terzo dei ministri si sia dichiarato contrario: e i due terzi? Ché forse per Galli Della Loggia si deve governare a colpi di minoranza?
E, infine, tra le varie minacce contro la libertà di religione che il professore riporta v'è anche il video di David Bowie, The Next Day. Riguardo a ciò, per tranquillizzare il nostro esimio politologo, riportiamo il giudizio di qualcuno che s'intende veramente di libertà minacciata, senza sciorinare elenchi così, alla cazzo di Budda:
«Un inqualificabile polpettone che può trovare ragione solo nell’intento di provocare la reazione di qualche associazione cattolica, come d’altronde è immancabilmente accaduto, per lucrarne un poco di pubblicità. Il problema non sta nella sensibilità che è stata ferita – allarte è consentito stressare ogni permalosità – ma nella sgangherata struttura concettuale del prodotto e nella deprimente soluzione formale che gli è stata data: siamo davanti a un plot che non ha alcuna consistenza, che scorre sciatto, senza alcuna logica a sostenerlo, tanto meno quella che muove il testo della canzone. Una vera cagata. »
Per concludere, animati da profondo spirito libertario, suggeriamo al professor Galli Della Loggia di esperire la vita del chierico, per constatare se, anche da grande, è possibile «non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore

sabato 1 giugno 2013

Parlare delle cose proprie

« 184. Io non voglio escludere gli uomini da' ragionamenti communi né da conversare insieme con grata e amorevole dimestichezza. Ma dico bene che è prudenza non parlare se non per necessità delle cose propie, e quando se ne parla, non ne dare conto se non quanto è necessario al ragionamento o intento che allora si ha, riservando sempre in se medesimo tutto quello che si può fare senza dire. Più grato è fare altrimenti, più utile el fare così. »

Francesco Guicciardini, Ricordi, Parigi, Morello, 1576 (edizioni Salerno, Roma 1990).

Quante volte, imprudentemente, ho parlato di cose mie cercando, con ragionamenti e vaneggiamenti, una sorta di amorevole dimestichezza con altri umani che, bontà loro, passano di qui.
È questa, penso, la motivazione principale che tiene ancora in piedi il presente diario pubblico. Che altro sennò? Miscelando realtà e finzione, accadimenti e proponimenti, fatti e fantasie, manifesto me stesso, almeno quella parte di me che non ha timore di mostrarsi per quello che è: un coglione.
Basta spingere il reale un po' più in là del razionale e tutto, magicamente, torna. Come stamani, per esempio,  quando ho dovuto sottomettermi alla ferrea logica della regola d'oro.
Un semaforo rosso. Io in seconda posizione, in attesa del verde. Eccolo, il verde, ma l'auto davanti non parte. Perché? Aspetto a suonare il clacson, non voglio fare subito l'impaziente. Ma i dieci secondi sono ora venti e sto per suonare quando mi accorgo che l'auto davanti non parte perché attende che delle donne tranquille tranquille, tra i cinquanta e i sessanta, attraversino la strada. Col rosso. Finalmente si parte e io, lanciando sguardi di fiamme, suono il clacson non contro l'auto che mi precede, ma verso le signore. Una dai capelli corvini mi guarda e sillaba un che cazzo vuoi, io replico con altrettanto sillabato vai a cacare.
Parcheggio. Ho la mattina davanti, ho preso il Kindle, non voglio neanche andare in libreria, magari andrò a fare un giro per bancarelle, più tardi. Trovo una panchina faccia a Guido Monaco e un tepido sole. Poche pagine e sento un leggero sommovimento intestinale. Gioco d'anticipo, mi alzo e vado in cerca di un bar. Prendo il primo grandino ed elegante che trovo, di sicuro ci sarà un bagno confortevole, mi dico. Faccio una breve fila alla cassa per lo scontrino e chiedo dove sia la toilette. Il cassiere me la indica ma, insieme a essa, m'indica altresì la fila: tre uomini davanti, cazzo. Vado subito al bancone per il caffè. Il barista traccheggia con un cazzo di cappuccino coll'orzo, ma vaffanculo dico sorridendo alla signorina carina carina a fianco che l'ha ordinato un secondo prima di me. Finalmente, dopo tre minuti (sono lunghi tre minuti in certe circostanze) il caffè arriva, tiepido, brodoso. È anche cattivo, e mando affanculo Illy Riccardo da Trieste. Esco. Soluzioni? Un altro bar? Escludo (devo dare retta a Olympe). Un grande negozio, Oviesse per esempio. Entro, ci sono tre piani, parto dal -1. Chiedo a una commessa che mi dice che non ci sono bagni per i clienti. Sorrido con un vaffanculo incorporato. E ora? La libreria Edison, c'è il bar e c'è il bagno. Entro. Non c'è più il bar e, dove c'era il bagno, sulla porta, hanno scritto: “Privato”. Fanculo. E quindi? La biblioteca comunale, sì, eureka. Solo si trova in cima al corso e con un tratto finale in salita tipo lo Stelvio. Vabbè. Credo di farcela, mi avvio.  A dei vigili urbani al volo domando se è aperta e mi dicono di sì. Procedo. Supero una comitiva di pensionati tedeschi e una di rugbysti francesi. In un tratto stretto di fiera, tra due tendoni di bancherelle, intoppo un furgone che vuole passare e che occupa tutta la strada. Sono tentato di camminare sopra tutta la cianfrusaglia in vendita e sto per farlo quando la via si libera. Accelero il passo, ecco la biblio, salgo le ripide scale, ci sono, uomini a sinistra, entro, la porta dell'unico bagno è chiusa e sento dentro la voce di un ubriaco imprecare perché ho tentato di aprire la porta. E ora? Provo dalle donne a destra? Do un'occhiata. Dalla porta s'intravede altresì un chiostro all'aperto che collega con la piazza ove si trova la Casa del Petrarca. Esco. Dal poeta tocca pagare: avanzo smarrito, incerto, a questo punto, se anche nei Palazzi di Provincia o Comune troverò degli intoppi, sono rovinato. Faccio pochi passi quando noto, all'ingresso degli uffici della Polizia Provinciale, un cartello che indica che all'interno dei locali, si trova una mostra permanente (aperta due giorni al mese nei sab-dom di fiera) di fauna selvatica. M'azzardo, l'ingresso è gratuito. Non c'è un cane, ma ci sono altri animali:





C'è persino un bagno, pulito, accogliente, dove sentirmi riavere. 
Non potevo fare altrimenti, più utile è stato fare così.

Incontro con Pontiggia che incontra Grillo

Mondadori, Milano 2002
Libro recuperato presso bancarella antiquaria (!) aretina. C'era la classica fiera, stamani.
Chissà se Pontiggia confermerebbe il giudizio sull'affidabilità di Beppe Grillo il tribuno.

Avvertenza tecnica.
Tale post rapido voleva essere pubblicato stamani tramite smartphone, l'applicazione di Blogger per Android restituisce delle foto illeggibili.