sabato 1 giugno 2013

Parlare delle cose proprie

« 184. Io non voglio escludere gli uomini da' ragionamenti communi né da conversare insieme con grata e amorevole dimestichezza. Ma dico bene che è prudenza non parlare se non per necessità delle cose propie, e quando se ne parla, non ne dare conto se non quanto è necessario al ragionamento o intento che allora si ha, riservando sempre in se medesimo tutto quello che si può fare senza dire. Più grato è fare altrimenti, più utile el fare così. »

Francesco Guicciardini, Ricordi, Parigi, Morello, 1576 (edizioni Salerno, Roma 1990).

Quante volte, imprudentemente, ho parlato di cose mie cercando, con ragionamenti e vaneggiamenti, una sorta di amorevole dimestichezza con altri umani che, bontà loro, passano di qui.
È questa, penso, la motivazione principale che tiene ancora in piedi il presente diario pubblico. Che altro sennò? Miscelando realtà e finzione, accadimenti e proponimenti, fatti e fantasie, manifesto me stesso, almeno quella parte di me che non ha timore di mostrarsi per quello che è: un coglione.
Basta spingere il reale un po' più in là del razionale e tutto, magicamente, torna. Come stamani, per esempio,  quando ho dovuto sottomettermi alla ferrea logica della regola d'oro.
Un semaforo rosso. Io in seconda posizione, in attesa del verde. Eccolo, il verde, ma l'auto davanti non parte. Perché? Aspetto a suonare il clacson, non voglio fare subito l'impaziente. Ma i dieci secondi sono ora venti e sto per suonare quando mi accorgo che l'auto davanti non parte perché attende che delle donne tranquille tranquille, tra i cinquanta e i sessanta, attraversino la strada. Col rosso. Finalmente si parte e io, lanciando sguardi di fiamme, suono il clacson non contro l'auto che mi precede, ma verso le signore. Una dai capelli corvini mi guarda e sillaba un che cazzo vuoi, io replico con altrettanto sillabato vai a cacare.
Parcheggio. Ho la mattina davanti, ho preso il Kindle, non voglio neanche andare in libreria, magari andrò a fare un giro per bancarelle, più tardi. Trovo una panchina faccia a Guido Monaco e un tepido sole. Poche pagine e sento un leggero sommovimento intestinale. Gioco d'anticipo, mi alzo e vado in cerca di un bar. Prendo il primo grandino ed elegante che trovo, di sicuro ci sarà un bagno confortevole, mi dico. Faccio una breve fila alla cassa per lo scontrino e chiedo dove sia la toilette. Il cassiere me la indica ma, insieme a essa, m'indica altresì la fila: tre uomini davanti, cazzo. Vado subito al bancone per il caffè. Il barista traccheggia con un cazzo di cappuccino coll'orzo, ma vaffanculo dico sorridendo alla signorina carina carina a fianco che l'ha ordinato un secondo prima di me. Finalmente, dopo tre minuti (sono lunghi tre minuti in certe circostanze) il caffè arriva, tiepido, brodoso. È anche cattivo, e mando affanculo Illy Riccardo da Trieste. Esco. Soluzioni? Un altro bar? Escludo (devo dare retta a Olympe). Un grande negozio, Oviesse per esempio. Entro, ci sono tre piani, parto dal -1. Chiedo a una commessa che mi dice che non ci sono bagni per i clienti. Sorrido con un vaffanculo incorporato. E ora? La libreria Edison, c'è il bar e c'è il bagno. Entro. Non c'è più il bar e, dove c'era il bagno, sulla porta, hanno scritto: “Privato”. Fanculo. E quindi? La biblioteca comunale, sì, eureka. Solo si trova in cima al corso e con un tratto finale in salita tipo lo Stelvio. Vabbè. Credo di farcela, mi avvio.  A dei vigili urbani al volo domando se è aperta e mi dicono di sì. Procedo. Supero una comitiva di pensionati tedeschi e una di rugbysti francesi. In un tratto stretto di fiera, tra due tendoni di bancherelle, intoppo un furgone che vuole passare e che occupa tutta la strada. Sono tentato di camminare sopra tutta la cianfrusaglia in vendita e sto per farlo quando la via si libera. Accelero il passo, ecco la biblio, salgo le ripide scale, ci sono, uomini a sinistra, entro, la porta dell'unico bagno è chiusa e sento dentro la voce di un ubriaco imprecare perché ho tentato di aprire la porta. E ora? Provo dalle donne a destra? Do un'occhiata. Dalla porta s'intravede altresì un chiostro all'aperto che collega con la piazza ove si trova la Casa del Petrarca. Esco. Dal poeta tocca pagare: avanzo smarrito, incerto, a questo punto, se anche nei Palazzi di Provincia o Comune troverò degli intoppi, sono rovinato. Faccio pochi passi quando noto, all'ingresso degli uffici della Polizia Provinciale, un cartello che indica che all'interno dei locali, si trova una mostra permanente (aperta due giorni al mese nei sab-dom di fiera) di fauna selvatica. M'azzardo, l'ingresso è gratuito. Non c'è un cane, ma ci sono altri animali:





C'è persino un bagno, pulito, accogliente, dove sentirmi riavere. 
Non potevo fare altrimenti, più utile è stato fare così.

2 commenti:

CalMaFdd ha detto...

Giunto in piazza, ieri mattina, più o meno a mezzogiorno, stuzzicato da quel tuo post su Grillo attraverso gli occhi di Pontiggia (e dall'invidia, naturalmente, per il libro che t'eri accattato (e ci credo!) su un'imprecisata bancarella antiquaria) mi tuffavo a rimestare tra libri, principalmente, ma non solo. Portavo a casa due Nabokov (intonsi: "Fuoco Pallido", Intransigenze"), un Bonnefoy che da tempo cercavo ("Lo sguardo per iscritto) e, per soprammercato, (non sono uno che sta lì a contrattare) un Paul Auster ("L'invenzione della solitudine"). All'angolo poi dell'erta che mena alla Pieve di Santa Maria venivo mesmerizzato da una lampada d'ottone. Il giro m'è costato passa 100 euri. Chi se ne fotte, una giornata da dio. Voglio dire, lì in S.Francesco, davanti alla vera croce. Tu m'intendi

Luca Massaro ha detto...

Già, quell'angolo, quel mondo, quel dio - Piero, intendo ;-)