venerdì 7 giugno 2013

Non c'è tempo per essere tristi

Mi chiedi perché non sono triste: perché ho fatto quasi tutto per essere felice e con somma presunzione mi dico che più di così non riesco a fare, non posso - non voglio, sarebbe più il caso di dire: sono questo, non voglio abbandonarmi alla tristezza perché con essa mi negherei la suggestione di stare bene qui e ora, di stare facendo la cosa giusta, di essere in viaggio nella mia navicella terrestre, ancora sulla traiettoria del mio debole immaginare, con due o tre obiettivi minimi realizzati a cominciare dal non essere, sinora, rimasto vittima di alcuna vocazione (religiosa, politica, culturale), sino ad avere avuto la fortuna di non essere costretto a vendere la mia forza lavoro (diventando schiavo del mio lavoro e di chi lo compra).

Vedi, una volta diventavo triste per niente, perché sovente mi capitava di sentirmi fuori luogo, fuori tempo, fuori da una vita che mi sembrava desiderabile. Cioè, non è che ora possa salire in cattedra e dare lezioni di eudemonologia: non mi permetto, anzi per quanto posso evito di diventare modello (ovvero scandalo) di coloro che potrebbero - prendendo un abbaglio notevole - ritenermi degno di ammirazione. 
Forse cedo poco alla tentazione della tristezza perché ho accettato i miei limiti e le mie debolezze senza farne vanto, né accanirmici contro come fossero malattie dalle quali necessariamente guarire. Avendo una naturale propensione all'infingardaggine, ho tenuto bassi i desideri per non farli cozzare contro un tasso di volizione che avrebbe fatto invidia a Schopenhauer.
E poi: non sono triste perché ho il vizio frequente di autoassolvermi; inoltre, godo di un confortevole spazio/tempo dove posso coltivare solitudine controllata - come se, sotto sotto, avessi in animo di diventare un saggio.

Cosa penso della mia vita futura? Penso a spingerla in là nelle stagioni a venire, a vedermi decadere, quattro ossa che già cominciano a scricchiolare se le sottopongo a falsi e bruschi movimenti. 
Ci pensavo proprio oggi, sotto il sole, guardando la foto di uno scrittore americano che, nel 1976, aveva 45 anni:

Come mia madre. E io ne avevo 9. E guardo mia figlia minore che ne ha dieci e io un anno più di mia madre e dello scrittore di cui sopra. E cerco in tutti i modi di ricordare cosa facessi nel giugno di quell'anno, in una certa piazza, sicuramente sgombra di auto parcheggiate, a tirare calci a un pallone insieme a tutti gli altri miei coetanei del paese. E tornavo a casa sudato e contento di sapere che domani sarebbe stato l'ultimo giorno di scuola. E, vinto dal sonno, desideravo ancora una volta poter infilarmi nel lettone dei genitori ma è caldo, fa la mamma, dài, vai da solo nel lettino, ché tra poco torna tuo fratello. E le lenzuola che grattano pulite. E la canottiera con le costine e i primi segni dell'abbronzatura. E penso a chissà come sarò io quando avrò l'età di mia madre ora e così anche a mia figlia che avrà la mia età attuale. In tutto questo scorrere di anni avanti e indietro non c'è spazio per la tristezza. C'è lo spazio per indossare una canottiera come allora e per andare sotto il sole ad abbronzarmi leggendo Ragtime. E magari ballare da solo.

1 commento:

bag ha detto...

quindi alla fine sei un mistico