mercoledì 14 giugno 2017

Baci

«Devo andare», mi disse con una punta d'incertezza che io colsi, per cui non mi mossi, restai seduto, doveva alzarsi lei, tra l'altro dovevo finire il mio caffè ristretto, lo lascio sempre raffreddare da quella volta che mi scottai la lingua il giorno del nostro primo appuntamento, il giorno del nostro primo bacio, che le detti, appunto, con la lingua ustionata e fu più patire che godere, ma io non glielo dissi mica, che pativo, questo è il punto, in quel momento persino una spina su un fianco non avrei percepito, epperò volevo dirglielo adesso che se ne stava andando, che mi lasciava così su due piedi (non ho mai capito perché la gente si lasci su due piedi e non su due mani, o altro, per esempio, cinque o sei dita, due pollici, un orecchio da mercante e un occhio per occhio dente per dente, se mi lasci, ti lascerò anch'io, che credi, la prossima volta magari, appena me ne darai il tempo), senza preavviso, senza avermi dato il tempo di mettermi la camicia di jeans, quella che trovava sexy quando me la sbottonava, lentamente, e si metteva ad giocherellare con quei pochi riccioli che ho sul petto, «Sai, lo facevo spesso anche a mio padre», «Oddio», rispondevo «io non posso ricordarti lui, mi vedi? sono toto coelo differente», «Per questo mi piaci, per questo voglio stare con te, io ho ammazzato Edipo da giovane, che credi», «E ti credo, certo che ti credo; magari se però scendi con quella mano ti crederei di più», ecco, e tu aumentavi il sorriso a dismisura, che diventava un sole, e io, occhiali non avendo, per non abbagliarmi, chiudevo gli occhi, eccetera.

Disse ancora: «Devo andare», ma con maggiore esitazione, come se aspettasse da me una preghiera per fermarla. Quindi ripose il cellulare nella borsa, estrasse il portafogli, controllò l'importo dello scontrino, vi pose sopra i soldi, mi guardò con aria incerta, forse aspettando un saluto, una lacrima (o insulto e uno sputo?), si levò dalla sedia, ma non completamente, come chinandosi per controllare non le fosse caduto qualcosa ai piedi e, in quel momento, posai la mia mano sul suo braccio e dissi: «Aspetta. Concedimi ancora qualche minuto».

Non riuscii a interpretare se nel suo sguardo vi fosse più un'espressione contrariata o soddisfatta. Credetti alla seconda, per predispormi a un discorso meno astioso, più tenero e melanconico, che – speravo – avrebbe potuto instillare in lei un minimo di ripensamento. Perché aveva scelto di stare con me, in fondo? Perché, beninteso, là dove non ci sono rapporti di forza o di potere sono quasi sempre le donne a scegliere. «Perché avevi un'aria interessante, parlavi bene, ma soprattutto: sapevi ascoltare. Vedevo i tuoi occhi seguire i miei occhi e non le labbra mentre sillabavano le parole della mia storia. Tu – anche adesso, per dire – mi guardi negli occhi mentre parlo e io, parlando, mi sono sentita, forse per la prima volta, interamente ascoltata. Prima di te, soltanto la professoressa d'italiano delle superiori mi aveva guardato così mentre parlavo, e infatti: nonostante abbia fatto ragioneria, dopo mi sono iscritta a lettere, grazie a lei».
«E, grazie a me, a che cosa ti iscriverai, adesso?»
«Non fare lo scemo: dimmi che cosa dovevi dirmi».
«Vorrei baciarti, un'ultima volta».
«Non posso»
«Non puoi o non vuoi?»

«Non posso: mi sono bruciata la lingua con quella cazzo di tisana».

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