mercoledì 24 aprile 2013

Il feticismo del consumatore

Su R2 de La Repubblica di ieri v'è un'intervista di Anais Ginori a Jacques Séguéla, “uno dei più grandi pubblicitari al mondo”, il quale afferma cose su cui vale la pena riflettere:
«In Francia come in Italia assistiamo al fallimento della classe politica, il potere del mondo si sta spostando dalla politica all'impresa [...] In questo momento gli Stati occidentali sono nel mezzo di una crisi di rappresentanza»
Ginori domanda prontamente se, in tal caso, «dovremmo affidarci a un'oligarchia di multinazionali» senza però considerare che il mondo, in gran parte, è già di fatto affidato a tale oligarchia. Séguéla risponde che, considerato che la politica si dibatte tra “consenso e fattibilità”, 
«L'unica speranza è il coraggio imprenditoriale. I paesi che sono riusciti a riprendersi dalla recessione, come gli Stati Uniti, sono quelli che hanno lasciato ampia libertà economica alle aziende. L'Europa è bloccata da cinque anni perché s'illude che i governi potranno farcela da soli». 
Ma è inutile che riassuma. Copio e incollo il resto impaginandolo meglio di quanto faccia er sito:

C' è un problema: le multinazionali non hanno alcuna legittimità democratica. 
«Intanto il potere dell'innovazione non è più nella politica. Ormai abbiamo capito che i dirigenti non possono reinventare la democrazia, trovare nuovi strumenti per promuovere la giustizia e l' uguaglianza sociale. Paradossalmente sono marchi importanti, dalla Apple ad Airbus, che possono cambiare la vita di tutti molto più dell'elezione di un leader piuttosto che un altro». 
Politica e marketing ormai sono sempre di più la stessa cosa? 
«Bisogna aprire gli occhi. Le scelte decisive non sono più fatte dall'elettore ma dal consumatore. Si tratta della stessa persona. Ma mentre l'elettore vota e poi deve aspettare magari cinque o sette anni per poter cambiare idea, il consumatore ha un potere immediato e continuo sulle aziende». 
È il trionfo della pubblicità? 
«Negli ultimi anni si è capovolto il rapporto tra consumatori e produttori. Non esiste più quella che un tempo era considerata come la dittatura della pubblicità. Oggi i consumatori diventano coproprietari delle marche. Possono pretendere alta qualità, prezzi convenienti, ma anche una comunicazione interattiva. E c'è un punto ancora più importante». 
Ovvero? 
«I consumatori controllano la moralità delle aziende. Molte multinazionali non si possono più permettere di subappaltare la produzione in paesi sperduti, senza rispettare regole sindacali e ambientali. I consumatori hanno una funzione di censura e regolamentazione delle aziende. Le imprese che vogliono aver successo devono proporre ai propri clienti una sorta di partnership: un rapporto alla pari». 
È la privatizzazione della democrazia? 
«Il primo partito in Francia, come in Italia è quello di consumatori. I clienti dei marchi sono molto cambiati negli ultimi anni. Non si muovono più in branchi su autostrade, ma cercano strade laterali, sentieri diversi. Si sviluppano forme di baratto, di altro-consumo all'insegna della frugalità o del rispetto ambientale». 
I governi non dovrebbero fare di più per contenere il potere di questa oligarchia di marchi? 
«Le leggi sono facilmente aggirabili. Io preferisco che siano i cittadini con le class action o con campagne sul web a stabilire, con una Carta, limiti e doveri delle imprese. Lo abbiamo visto con i recenti scandali sanitari e alimentari. Ogni volta, scatta il passaparola online, le aziende rischiano il boicottaggio del marchio se non forniscono risposte adeguate. Quindi le imprese hanno interesse a evitare scandali e illegalità. Internet ha molti difetti se parliamo di minaccia alla privacy. Ma è uno straordinario mezzo per controllare autorità pubbliche e private. Chi non lo capisce guarda il mondo con gli occhi del passato».
Dunque, la legittimità democratica è aria fritta con oli esausti. Il potere politico non conta più un cazzo e se non conta chi lo detiene tale potere, figuriamoci chi vi si presta esercitando il proprio diritto dovere di elettore sovrano (omeopaticamente limitato). 
Ma tutto questo non è una novità: pensare che il consumatore sia la vera controparte dell'impresa è un leit-motiv del capitalismo maturo, soprattutto da quando il mercato è diventato globale.
Mi ricordo che persino Cesare Romiti, quando fu presidente della Fiat, sosteneva che l'utente (consumatore) è il vero uomo del futuro; finanche Grillo, ai tempi in cui abbandonò la televisione e iniziò i suoi spettacoli di critica della società, sostenne che le vere scelte politiche, il cittadino le compie al supermercato, non nel segreto dell'urna. 
La novità che introduce Séguéla è un'altra. Quand'egli dichiara, infatti, che «Le imprese che vogliono aver successo devono proporre ai propri clienti una sorta di partnership: un rapporto alla pari» usa tutta la raffinatezza di grande pubblicitario per prenderci per il culo, giacché per esserci realmente un rapporto alla pari tra produttore e consumatore, dovrebbe venire meno il plusvalore, ma se esso venisse meno non ci sarebbe l'impresa capitalista. Come scrive Marx (Il Capitale, Libro Primo, Capitolo III, “Il denaro ossia la circolazione delle merci): «l'insieme della classe dei capitalisti non può sfruttare se stessa [...] Se si scambiano equivalente, non nasce nessun plusvalore; se si scambiano non-equivalenti, neppure in tal caso nasce plusvalore. La circolazione, ossia lo scambio delle merci, non crea nessun valore». 
Gli unici titolati a essere consumatori sono i capitalisti stessi: loro sì che consumano il mondo dopo averlo sfruttato (o cotto) a puntino. I bucolici consumatori decrescenti sono delle mezzeseghe al confronto.
Chiudo con il classico:
«L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci». (Karl Marx, op. cit., Libro Primo, Capitolo Primo, “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”).
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