lunedì 2 giugno 2014

Capitalismo e libertà (2)

Scrive Milton Friedman in “Rapporto tra libertà politica e libertà economica”, tratto dal libro da cui ho ripreso il titolo di questo e del precedente post.
«Lo scambio può quindi realizzare la coordinazione senza coercizione. Un modello operativo di società organizzate per mezzo dello scambio volontario è una libera economia di scambio imperniata sull'intrapresa privata, quella cioè che abbiamo definita come capitalismo concorrenziale.«Nella sua forma più semplice, siffatta società è composta di un certo numero di nuclei familiari indipendenti, di una serie di Robinson Crusoè, per così dire. Ciascun nucleo familiare impiega le risorse a sua disposizione per produrre beni e servizi prodotti da altri nuclei familiari, a condizioni mutuamente accettabili per le due parti che intervengono nello scambio: è, quindi, in grado di soddisfare i propri bisogni per via indiretta, producendo beni e servizi per gli altri, piuttosto che per via diretta, producendo beni per suo proprio utilizzo immediato. L'incentivo a praticare questo metodo indiretto è, naturalmente, dato dall'aumento di produzione reso possibile dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione delle funzioni. Dal momento che il nucleo familiare ha sempre, come secondo aspetto dell'alternativa, la possibilità di produrre direttamente per sé, esso non si trova nella necessità di praticare lo scambio, a meno che non ne ricavi un beneficio. Quindi, nessuno scambio avrà luogo se entrambe le parti che lo praticano non ne beneficiano. La cooperazione è, quindi, ottenuta senza coercizione.«La specializzazione delle funzioni e la divisione del lavoro non andrebbero molto avanti se l'unità produttiva fondamentale restasse il nucleo familiare. Nella società moderna noi siamo andati molto più avanti. Abbiamo introdotto imprese che fungono da intermediarie fra i singoli nelle loro funzioni di fornitura dei servizi e di acquisto dei beni. Parimenti, la specializzazione delle funzioni e la divisione del lavoro non potrebbero andare molto avanti se noi dovessimo continuare a fondarci sul baratto dei prodotti. Perciò, la moneta è stata introdotta come mezzo per facilitare gli scambi e per consentire la separazione, in due atti distinti, dell'acquisto e della vendita.» M. Friedman, Capitalismo e libertà, pag. 25-26

Obiezione: la dinamica produttiva ed economica capitalista non si esaurisce nello scambio o nella circolazione semplice. Il perché e il come ce lo spiega Marx, Grundrisse, edizione Einaudi pag. 220
«Il lavoro come pura prestazione di servizi per il soddisfacimento di bisogni immediati non ha nulla a che fare con il capitale, perché questo non lo cerca. Se un capitalista si fa tagliar della legna per arrostire il suo montone, sia il taglialegna nei suoi confronti, sia lui stesso nei confronti del taglialegna stanno nel rapporto dello scambio semplice. Il taglialegna gli presta il suo servizio, un valore d'uso che non accresce il capitale, che anzi in esso si consuma, e il capitalista in cambio gli fornisce un'altra merce sotto forma di denaro. Così accade con tutte le prestazioni di servizi che i lavoratori scambiano direttamente con il denaro di altre persone, e che vengono da queste consumate. Si tratta allora di consumo del reddito, consumo che come tale rientra sempre nella circolazione semplice, non di consumo del capitale. Poiché uno dei contraenti non sta di fronte all'altro come capitalista, questa prestazione del servitore non può rientrare nella categoria del lavoro produttivo.» Karl Marx, Grundrisse, edizione Einaudi, pag. 220.

Il trucco di Friedman - e forse degli economisti liberal-liberisti in generale - consiste nel rifiuto di problematizzare il passaggio dallo scambio o circolazione semplice, al modo di produzione capitalistico. Ne sia prova il passaggio seguente:
«Nonostante il ruolo importante delle imprese e della moneta nella nostra economia contemporanea, e nonostante i numerosi e complessi problemi che ne derivano, la caratteristica centrale della tecnica del mercato per attuare la coordinazione è pienamente attuata nell'economia di scambio semplice, che non conosce ancora né l'esistenza delle imprese né quella della moneta. Come in questo modello semplice, così nell'economia complessa di impresa, di moneta e di scambio, la cooperazione è strettamente individuale e volontaria purché:1. le imprese siano private, sicché, al limite, le parti contraenti siano individui;2. gli individui siano effettivamente liberi di impegnarsi o non impegnarsi in un qualsiasi scambio particolare, di modo che ogni transazione risulti strettamente volontaria.» M. Friedman, Ibidem, pag. 25

Che non sia così, che il sistema economico e produttivo capitalistico obbedisca a ben altre leggi che non sono affatto riducibili allo scambio semplice ce lo spiega ancora Marx (sempre dai Grundrisse, pag. 222:
«Se consideriamo lo scambio tra capitale e lavoro, riscontriamo che esso si scinde in due processi diversi non solo sul piano formale, ma anche su quello qualitativo, in due processi addirittura contrapposti:1) L'operaio scambia la sua merce – il lavoro che ha valore d'uso, che in quanto merce ha anche un prezzo come tutte le altre merci – con una determinata somma di valore di scambio, una determinata somma di denaro che il capitale gli cede.2) Il capitalista ottiene in cambio il lavoro stesso, il lavoro come attività creatrice di valore, come lavoro produttivo; ossia ottiene nello scambio la forza produttiva che conserva e moltiplica il capitale, e che con ciò diviene forza produttiva e riproduttiva del capitale, una forza che appartiene al capitale stesso.»

La libertà di scambio: ecco la sola libertà che anima il sistema economico e produttivo capitalista, la sola che è disposto a difendere e a garantire, posto che le altre libertà sono tutte libertà accessorie che, in caso di necessità, possono anche essere sacrificate pur di salvaguardare l'unica che sta alla base del sistema, la libertà di scambio, appunto.
«Finché è effettivamente mantenuta la libertà di scambio, l'essenziale tratto caratterizzante dell'organizzazione di mercato dell'attività economica sta nel fatto che essa impedisce al singolo di interferire in gran parte delle attività altrui. Il consumatore è protetto dalla coercizione esercitata dal venditore per effetto della presenza di altri venditori con i quali egli può entrare in rapporto contrattuale. Il venditore è protetto dalla coercizione esercitata dal consumatore per effetto della presenza di altri consumatori ai quali egli può vendere. Il prestatore d'opera è protetto dalla coercizione esercitata dall'imprenditore, perché ci sono altri imprenditori per i quali può lavorare, e così via. E il mercato realizza tutto ciò impersonalmente e senza intervento di un'autorità centrale.» M. Friedman, ibidem, pag. 26

Il mondo del Bengodi per tutti, dai consumatori, ai venditori, dai prestatori d'opera agli imprenditori. Che sagome questi economisti liberali. Che menti acute, vero Marino?[*]
«La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia. » Karl, Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione V, cap. 14.
 
[*] Mi riferisco al tuo commento al precedente post

domenica 1 giugno 2014

Intervallo serale

Buonasera Abcd.
Giugno s'è presentato come doveva. Il grano sorride e io pure, stessa ambizione di diventare pane. Unica differenza (e ulteriore mia ambizione): scegliere per quali denti.

sabato 31 maggio 2014

Capitalismo e libertà (1)

In biblio, ho trovato una raccolta di saggi di Milton Friedman, Capitalismo e libertà, Chicago 1962, prima edizione italiana Vallecchi 1967, ristampati da Studio Tesi nel 1987.
Dal primo capitolo, estraggo:
«Come liberali noi assumiamo la libertà dell'individuo, o forse della famiglia, come criterio supremo di valutazione degli assetti sociali. La libertà come valore in questo senso riguarda le inter-relazioni fra persone; essa non ha alcun significato per un Robinson Crusoè su un'isola lontana (senza il suo servo Venerdì). Robinson Crusoè nella sua isola è soggetto a “costrizioni”, a una limitazione del suo “potere” e dispone solo di un piccolo numero di alternative, ma tutto ciò non solleva alcun problema di libertà, nel senso che interessa la nostra discussione. Parimenti, in una società la libertà non ha niente a che fare con ciò che un individuo fa della sua libertà; essa non è un principio etico onnicomprensivo. Infatti, uno dei fini maggiori che il liberale persegue è quello di lasciare che gli individui risolvano individualmente il proprio problema etico. I problemi etici davvero importanti sono quelli che l'individuo deve fronteggiare nell'ambito di una società libera, e riguardano quel che egli debba fare della sua libertà. Duplice è, dunque, la serie di valori che hanno importanza agli occhi del liberale: i valori che riguardano le relazioni fra persone, che sono il contesto nel quale egli attribuisce priorità assoluta alla libertà; e i valori che riguardano l'individuo nell'esercizio della sua libertà, che è il regno dell'etica e della filosofia individuale.»

Fin qui tutto bene, nel senso che quel che vede il liberale lo vedo anch'io: la società non deve mettere becco su quello che un individuo fa della sua libertà, salvo che l'esercizio della stessa non vada a ledere la libertà di altri individui. La mia libertà finisce dove inizia la tua. Andiamo avanti.
«Il liberale considera gli uomini come esseri imperfetti. Egli ritiene che il problema dell'organizzazione sociale sia sostanzialmente un problema negativo: che si tratti, cioè, di impedire alle persone “cattive” di fare il male piuttosto che di mettere in condizione le persone “buone” di fare il bene; e, naturalmente, le persone “cattive” e “buone” possono essere le stesse persone, a seconda del punto di vista dal quale le si giudica».

Anche qui mi sembra d'essere d'accordo. Il problema, grosso come Giove, è stabilire qual è il punto vista preferibile per giudicare chi fa male e che cosa. Va sottinteso che sia un governo e un apparato statale a far rispettare determinate regole, alla luce di un dettato costituzionale redatto da persone “cattive” o persone “buone”?
La risposta più avanti.
«Il problema fondamentale dell'organizzazione sociale è quello di coordinare le attività economiche di un gran numero di persone. Anche in società di relativa arretratezza, un'ampia divisione del lavoro e specializzazione delle funzioni è necessaria per un efficace impiego delle risorse disponibili. Nelle società progredite, la necessità di tale coordinazione è infinitamente maggiore per poter trarre pienamente vantaggio dalle opportunità offerte dalla scienza e dalla tecnologia moderna. Addirittura milioni sono le persone impegnate nello sforzo di assicurarsi vicendevolmente il pane quotidiano, per non parlare poi dei beni di consumo durevoli come le automobili. Per colui che crede nella libertà, il problema essenziale è quello della conciliazione tra questa amplissima interdipendenza e la libertà dei singoli.»

Dopo l'astrattezza della definizione di libertà, si inizia a entrare nel concreto. Rileggere la prima frase due volte. Il problema fondamentale dell'organizzazione sociale è quello di coordinare le attività economiche di un gran numero di persone. Il problema fondamentale dell'organizzazione sociale è quello di coordinare le attività economiche di un gran numero di persone. L'ha scritto un liberale. Come non essere d'accordo su questo e sull'ultima frase, da rileggere due volte anch'essa?
Per colui che crede nella libertà, il problema essenziale è quello della conciliazione tra questa amplissima interdipendenza e la libertà dei singoli. Per colui che crede nella libertà, il problema essenziale è quello della conciliazione tra questa amplissima interdipendenza e la libertà dei singoli.
O vediamo, avanti.
«In sostanza ci sono soltanto due modi di coordinamento delle attività economiche di milioni di persone. Uno consiste nella direzione centrale, implicante l'impiego della coercizione, e questa è la tecnica adottata dagli eserciti e dai moderni stati totalitari. L'altro consiste nella cooperazione volontaria tra individui, e questa è la tecnica del libero mercato.»

Zan. Si stringe il discorso, si sta per arrivare al punto. Ma prima, ribadisco: fino a qui sono liberale anch'io, nel senso che, ovviamente, sembrano solo queste le opzioni possibili per coordinare le varie attività produttive all'interno di una società umana e, chiaramente, senza se e senza ma, sono indiscutibilmente a favore soltanto della cooperazione volontaria tra individui.
«La possibilità del coordinamento mediante la cooperazione volontaria si fonda sul presupposto elementare – e tuttavia spesso negato – che entrambe le parti che intervengono in una transazione economica ne ricavano beneficio, purché la transazione stessa sia ispirata al principio della bilateralità e della volontarietà.»

E tuttavia spesso negato. Spesso? Siamo quasi al punto, che è questo: il sistema economico e produttivo capitalista si fonda su un trucco, che è quello di far credere alle parti in causa, prenditori (e non datori) di lavoro e forza lavoro di operare alla pari mediante transazioni ispirate al principio della bilateralità e della volontarietà; ma la natura di questa transazione, come ha spiegato circa un secolo e mezzo fa Marx, nasconde ben altro...


[segue]

venerdì 30 maggio 2014

Meraviglie anglo-olandesi

La Fiat festeggia i mondiali con Novo Uno Rua.

Da un punto di vista meramente patriottico, sono proprio contento che la FCA (già Fiat) sia diventata una Società per Azioni anglo-olandese.

Come fanno a fare macchine così orribilmente brutte in Sudamerica? In Brasile poi, con tutti quei corpi perfetti ad esempio, magari anche aiutati dalla chirurgia. E appunto: perché non hanno chiamato un chirurgo del settore per rimodellare una simile nefandezza estetica?

giovedì 29 maggio 2014

Morning Glory

«La notte non porta consiglio, porta, casomai, se non dormi o dormi male e vorresti dormire, disperazione. La notte presenta il conto di tutte le inquietudini – e l'agitazione ti prende alla gola, e cerchi affannosamente una soluzione per porre rimedio al senso di vuoto, di vertigine, di solitudine.»

Questo pensava Elia sul divano, saranno state le cinque e il chiarore del giorno offriva, finalmente, la soluzione della mattina.
Silenzio completo, solo i primi cinguettii primaverili, vita che si alza e che sa già quello che c'è da fare e come farlo al meglio.
Elia no, non lo sapeva mai e per questo ogni giorno gli necessitavano alcune mezz'ore, di solito tre, per esser pronto a salire sui binari della propria vita.
E pensava: di solito rimestando i sogni e gli accadimenti del giorno precedente, oppure gli avvenimenti mondani che si impongono nei media, la politica puttana, raramente di episodi a carattere sportivo. A volte però, appunto quando la notte era inquieta, vuoi per un mal di testa, vuoi per altro tipo d'incombenza anche di natura sentimentale, le ore che precedevano il momento di salire in treno e andare al lavoro, erano tutte dedicate a sopire, per quanto poteva, l'inquietudine.

Stamani, per esempio, dicevamo sul divano, assalito da un'improvvisa erezione, per cercare di risolverla, Elia si è prefigurato un sentimento che non gli appartiene e che non sa ricambiare, sfruttandolo, piegandolo a biechi interessi di natura orgiastica, interpretando un ruolo che non gli si confà - e lo specchio dello schermo tv riflette quanto sia ridicola tale postura.

Tuttavia, pur lasciando cadere tali suggestioni in dispregio, resta immutata in lui la voglia mattutina e l'unica maniera che conosce è spegnerla con una doccia, virata sul freddo, dopo che ha messo la moka sul gas, la maniera che alla lunga ha imparato a preferire, riservando la soddisfazione ad altre ore del giorno più opportune.
Dipoi, in accappatoio, si prende il caffè seduto al tavolo di cucina, un libro aperto a cercare di divergere l'attenzione dal sé. Ma non ci riesce. L'unica cosa che lo distrae sono i volantini con le offerte del supermercato. È un'autentica passione, tale lettura. Osserva ogni prodotto in offerta come se esso contenesse chissà quali virtù taumaturgiche, come se il facile possesso di tale merce gli garantisse un sovrappiù di esistenza: «Filetti di tonno del mar Cantarbico scontati del 50%». Che miseria.

E il peso che resta.

Ma il giorno comincia, regolare ma mica poi tanto. Un treno soppresso e quello dopo con notevole ritardo (e telefonare al capoufficio e giustificarsi è sempre una pena).
E anche se le scorie della notte sono interrate dai doveri e dalla routine quotidiana, una lieve ipocondria lo tiene compresso e il sorriso resta incassato, lo sguardo velato, il cuore freddo. Finché.

Finché accade qualcosa che apre la tenda del giorno: le estremità delle labbra si piegano al riso, nello sguardo si accende una luce – e il cuore si scalda.

Cosa accade e perché?
Niente di particolare, soprattutto: niente di trascendentale. Elia stesso, quando me ne parla, non riesce a spiegarsi bene, lascia intendere qualcosa, due occhi per esempio.
«Ma quali occhi?» gli ho domandato più volte, e lui niente, non ha mai voluto rispondere.

Un giorno, per caso, mi sono ritrovato a pranzo nello stesso locale dove consuma i buoni pasto che gli fornisce l'azienda. Mi ha pregato di accomodarmi al suo tavolo, avrebbe offerto lui.
D'un tratto, mentre gli raccontavo della mia tribolata storia con Carla, dell'indifferenza che è scesa nei nostri cuori, Elia mi mette una mano sull'avambraccio pregandomi di tacere e guardare verso l'ingresso.
«Eccola», dice indicandomi con lo sguardo una ragazza sui vent'anni, i capelli color rame raccolti in alto e fermati con una specie di osso appuntito.
«E chi sarebbe?» chiedo; e aggiungo sorridendo: «Ma non è un po' troppo giovane per te?».
«Non dire cazzate, ti prego» mi rimprovera. «Guardala bene: sicuro che non la riconosci?».
No, non è possibile, dico in cuor mio. Non può essere lei. Il tempo passa per tutti. E a Elia: «Non, non può essere Lara».
«Non lo è, infatti» risponde sicuro. «È sua figlia».
«E come fai a saperlo?»
«Me l'ho ha detto lei. Vedi, un giorno, il ristorante era pieno, si è seduta proprio dove sei seduto tu. Manca poco svengo: non riuscii più a mettere in bocca niente dall'emozione. Ebbi solo modo di domandare se conosceva una signora di nome Lara O. “Certo, è mia madre”. Mi rispose e, a sua volta, chiese se la conoscessi».
«E tu che hai risposto?»
«Per depistare, ho detto che ero stato suo compagno di classe e che ricordavo bene i suoi lineamenti che adesso rivedevo in lei».
«Credi che l'abbia bevuta?»
«Non lo so. E francamente non me ne importa. So solo che da quando l'ho vista m'è ritornata tutta l'agitazione di un tempo, la stessa inquietudine. Dormo male la notte, mangio meno del solito, non riesco più a guardare 8½».
«Che c'entra la Gruber?»
«Niente, non c'entra niente la Gruber. È che ripenso, nuovamente e costantemente, a Lara, alle sue carezze, al suo abbraccio, ai suoi baci...»
«Possibile che, dopo trent'anni, tu pensi ancora a lei?».
«In verità non penso a lei: penso all'amore».

Con un affettuoso vaffanculo e un sorriso, gli misi una mano sulla spalla e promisi che, di lì a poco, avrei prenotato un bel week-end saunistico a Innsbruck per me e per lui, slovacche comprese.

Con un vaffanculo un po' meno affettuoso, mi congedò.

mercoledì 28 maggio 2014

Piccola favola

«Ahimè,» disse il topo «il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era talmente vasto che ne avevo paura, corsi avanti e fui felice di veder finalmente dei muri lontano a destra e a sinistra, ma questi muri precipitano così in fretta l'un verso l'altro che io mi trovo già nell'ultima camera e là nell'angolo sta la trappola in cui andrò a cadere». «Non hai che da mutar direzione» disse il gatto, e se lo mangiò.
Franz Kafka, Il messaggio dell'imperatore, versione di Anita Rho, Adelphi, Milano 1981


Sarebbe stato meglio non leggere Kafka, da giovane, perché avrei guardato con più fiducia e ambizione verso il futuro, un futuro che si prospettava roseo, muri che cadevano dappertutto e tutti quanti tutti, perfino chi li aveva edificati, a essere contenti della nuova era. Potevo approfittarne, essere lungimirante, darmi da fare per diventare gatto - ma quando uno nasce topo è probabile che lo resti a vita, la mutazione non è consentita ai cacadubbi, ai pavidi, agli infingardi, a chi non ha un'innata repulsione a tirar fuori la lingua per leccare gli stivali altrui.

Ma la Piccola favola non racconta solo quanto io sia una Piccola fava (mannaggia a me e alla tendenza di personalizzare tutto, di ricondurre tutto alla mia sorcitudine). 

La Piccola favola va estesa al mondo, all'uomo in generale - e non sciupo l'intelligenza altrui con le mie limitate interpretazioni.

Però mi sembra abbastanza evidente quanto essa racconti, in breve, la storia dell'umanità. 

Il problema interpretativo maggiore, a mio avviso, è dato dal gatto. Chi è in realtà il gatto
Ora ci penso tutto il giorno e se addiverrò a una risposta stasera la scriverò.

martedì 27 maggio 2014

Con gli occhi chiusi

I miei opinion maker di riferimento (qui e qui) si sono espressi e io a loro mi accodo, non aggiungendo un'acca allo specifico dell'accadimento elettorale.
Marginalmente, butto là un'impressione sopravvenutami stamane appena alzato, uscito fresco da una specie di incubo in cui guidavo con gli occhi chiusi su per una salita di una strada consueta, stava nevicando, e dietro a me un'ambulanza che voleva sorpassarmi e non ci riusciva ché io andavo come un pazzo e nel sogno mi dicevo «cazzo apri gli occhi cazzo solleva le palpebre» e non ci riuscivo, come fossero incollate. 

L'impressione, laterale, scaturita dall'incubo è questa: Renzi ha successo perché riesce a illudere gli elettori sulla sua capacità di guidare il Paese con sicurezza e determinazione, a occhi chiusi,
«Finché qualcuno, presolo per i capelli [...], non gli [faccia] volger la testa. - Dio! Mi fate male! Che divertimento c'è? - Hai sonno, bestia? - Poco no. E raccontava perché non aveva avuto tempo di dormire abbastanza. E sorrideva, tra il sonno.». Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, parte prima.
Anche Renzi sorride (o si compunge, alla bisogna). Finché qualcuno...

Dove ci siamo visti?

«Dove ci siamo visti?».
Come «Dove ci siamo visti?», dove ti ho visto, ché vorresti darmi a intendere che mi hai visto anche te? Non è possibile, io sì ti ho visto quella volta in piscina sulla sdraio a prendere il sole poco distante da me, ma distante quanto basta per non essere notato, povero sfigato solo mentre tu eri impegnata a fornicare con il tuo (con un tuo) partner, accarezzandolo dappertutto senza alcun equivoco là dove amerei molto anch'io essere accarezzato, dappertutto appunto, a cominciare dai gomiti o dalle rotule perché le mie ossa amano molto il caldo delle mani desideranti.
Quindi, perché mi chiedi questo, adesso, mentre dietro a te faccio la fila al banco gastronomia della coop guardandoti (speravo non visto) le gambe tanto abbronzate, come se fossi appena tornata dalle Canarie, forse ci sei stata, chissà, se ti conoscessi te lo domanderei, magari ci sei stata con il tuo (o con un tuo) partner, con quale ardire ti rivolgi a me similmente sorridendo in maniera tale che potresti finanche imbarazzarmi, far nascere dentro me pensieri loschi, tipo inventarmi una storia per dirti dove ci siamo visti, su di un cavo tirato tra un lampione della luce e un cornicione di un palazzo, sospesi nel vuoto, ognuno con un ombrello in mano sperando in esso come improbabile paracadute.

«Dove ci siamo visti?»
Tu non mi hai visto, non è possibile, perché se mi avessi visto mi avresti deriso e sputtanato orribilmente davanti a tutti i presenti dicendo loro: «Guardate quello là come si struscia la mano sopra il costume mentre io infilo la mia dentro quello del mio partner».
Tu non mi hai visto, quindi, non è vero perché se mi vedevi avresti visto i miei occhi puntati su di te inesorabili, e nel vedermi i nostri sguardi si sarebbero incrociati e avrebbero giustificato la tua domanda, alla quale avrei risposto senza indugio.

Dunque non ci siamo visti, ovvero io sì, ti ho visto e ora ti riguardo e più ti guardo ti guarderei, perché guardandoti la mia mente trova relax ed eccitazione (chissà se porti le mutande color crema dello stesso colore del due pezzi dell'altra volta). Hai proprio delle belle gambe, se non ti disturba potrei guardarle per un quarto d'ora di fila senza alcune interruzione.

«E in questo quarto d'ora di ammirata contemplazione cosa faresti?».

Mi toccherei un gomito, o una rotula.

lunedì 26 maggio 2014

Assenzio elettorale

«Il bevitore di vino tende all'allegria, alla chiacchiera. Il bevitore d'assenzio è perduto nelle sue fantasticherie; più che vera ubriachezza, l'assenzio induce uno stato di vaporoso stordimento, una rigida estasi.» Corrado Augias, I segreti di Parigi, Mondadori 1996
Essendo un nepotista, sono stato a votare mio nipote. È candidato consigliere in una lista civica appoggiata dal Pd per le elezioni comunali. Ho votato lui (più la croce sulla lista e il nome di una donna per la parità), ma poi basta. Appena entrato nel seggio ho detto: «Voglio solo una scheda, non voglio la scheda delle elezioni europee, e mi raccomando: sia messo agli atti». Ho controllato, l'hanno scritto nel registro che Massaro Luca non ha voluto la scheda per eleggere i rappresentanti italiani al parlamento europeo.
Inoltre, sia detto di passata, sempre a causa di ragioni nepotistiche, mi hanno dato l'incarico di rappresentante di lista per le comunali, quindi, domani alle 14, dovrò assistere agli scrutini. In aggiunta, oggidì, ho dovuto presenziare, soprattutto in serata, allo svolgimento delle votazioni. Nelle tre sezioni presenti alla sede elettorale è stato ampiamente superato l'80%. A detta dei presenti, ciò è avvenuto perché le elezioni del sindaco richiamano un numero maggiore di elettori, facendo da traino anche alle europee. In effetti, su seicentocinquanta elettori della sezione dove svolgo questo ruolo di pseudocontrollore, soltanto in tre (due maschi e una femmina) hanno rifiutato la scheda elettorale delle europee.
Ultima notazione. Una volta firmato i verbali, il sigillo dell'urna per le comunali e delle buste contenenti i documenti e le schede elettorali avanzate, per curiosità ho assistito all'inizio dello spoglio delle prime trenta schede. Risultato parziale: 29 voti al PD - alcuni dei quali aventi preferenze, compresa una data a Matteo Renzi - e una scheda nulla sulla quale, senza apporre alcuna croce, in uno spazio bianco è stato scritto: Pinco Pallino

domenica 25 maggio 2014

Dobbiamo gettare carezze

Volevo andare a letto ma volevo lasciare una carezza qui, su questo terreno.
Sia raccolta. Sia raccolto questo momento. Un raccoglimento.

«Come dici? Vuoi dire forse due insieme
dobbiamo gettare nella commistione l'arte,
né pura né sicura, d'un regolo e d'un circolo mendace?
Sì, è necessario, seppur ciascuno di noi deve trovare
la via che conduce alla sua casa.
E così pure, certo, la musica.»
Elio Pagliarani, Esercizi platonici, 1985, VIII, in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2006

La musica potrebbe anche essere questa, potrebbe.






sabato 24 maggio 2014

Silenzio elettorale

«Non bisogna chiedersi che cosa il nostro paese può fare per noi, ma chiedersi che cosa noi possiamo fare per il nostro paese». J.F. Kennedy

Improvvisa, un'epifania: io, per il mio Paese, non faccio un cazzo e mi sembra già abbastanza (meglio di Razzi, insomma, e senza prospettive di vitalizio).

venerdì 23 maggio 2014

Mi riscalda ancora

A volte, parlando o scrivendo, ho come la sensazione di rosolarmi da tutte le parti, sì da trattenere quello che voglio veramente. 
Cosa vuoi veramente?
Non lo so, cioè lo so, potrei dirlo - e l'ho detto: ma dicendolo temo che il succo della cosa voluta (desiderata) resti dentro, in attesa, inespresso.
Quindi il parlare e lo scrivere è solo una fase della cottura.
Più che altro, il rosolarsi e il sigillarsi (il parlare e lo scrivere) serve a non far seccare l'anima e renderla dura immangiabile, perché - attenzione sentenzio - si viene cotti comunque dalla vita, tanto vale farlo con cura.
Ma una volta cotto, vuoi che ti si mangi anche l'anima?
Reggimi l'anima coi denti.
Ma se è un soffio!
Può darsi e, se lo è, oggi si è lasciata avvolgere dal suono di una voce.
Quale voce?
Una voce [che] è quest'anima diffusa*.
Soffiava vento, era freddino e - è stato convenuto - mancava solo il mare.
Mare che è stato raccontato, coi suoi rari raggi verdi, anche se non è esattamente la stessa cosa.
Anche quel golf leggero non era esattamente la stessa cosa.
Mi riscalda ancora.

giovedì 22 maggio 2014

Di loro, i Soggetti

L'occasione fa l'uomo stupido e io, oggi, stupido lo sono stato due volte.
Una nel leggere.


L'altra nel capire cosa avevo appena letto. Stupido doppiamente.
«L'Europa in-secura, opera proprio sempre in forza di tale in-securetas, questa Europa che mai è sembrata avere sede certa, attorno a un linguaggio si è tuttavia costruita o, meglio, a un suo “originario fenomeno”. Possiamo chiamarlo “filosofia”. Non si tratta di contenuti determinati, tantomeno di astratti sistemi, ma di un atteggiamento complessivo che informa di sé tutta la nostra immagine del mondo, che determina una idea di vita: la possibilità che, al limite, essa possa essere condotta sulla base di norme razionali: che, proprio a tal fine, cultura e scienza debbano poter procedere autonomamente, ovverosia incondizionatamente, per potersi così esprimere in tutta la loro intrinseca potenza; che la libertà che in questa attività si incarna sia possesso del soggetto che opera, e che operando fa la propria storia, di noi, i Soggetti.».
Tuttavia, a volte, la stupidità chiama a soccorso l'intelligenza profonda delle cose. Ci si dimentica spesso che quello che ha fatto l'Europa, ciò che ha fatto, compiuto l'idea di vita dell'Occidente (America compresa, quindi),  è, molto semplicemente, la borghesia:

«La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.
Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato di illusioni religiose e politiche.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.
La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.
La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.
Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente.
La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.
Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese.

Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. -Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.» K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista Borghesi e proletari”.

Cultura e scienza non sono autonome, bensì ancelle di una particolare ideologia dominante, e la loro intrinseca potenza - salvo rare eccezioni - si estrinseca soltanto secondo certi particolari interessi di classe. Scienza e cultura, dunque, sono libere sino a un certo punto e non certo per tutti, ma soltanto per determinati Soggetti. 
Tra questi vi è senz'altro Massimo Cacciari che nella sua carriera politica e intellettuale ha prestato buon servizio alla classe dominante (compresa quella dei preti).
È inutile citare Marx come un vezzo, senza dargli la parola, una parola viva, che toglie il velo delle complicazioni ideologiche che giustificano l'asservimento del pensiero razionale a certi particolari fini.

mercoledì 21 maggio 2014

Non sei nessuno ma te

«Almost anybody can learn to think or believe or know, but not a single human being can be taught to feel. Why? Because whenever you think or you believe or you know, you're a lot of other people: but the moment you feel, you're nobody-but-yourself.» e.e. cummings
Già. Anche se a volte, raramente, capita di sentire se stessi con un altro, uno solo, ché tre è già una moltitudine. Uno (leggasi qui: una) uguale due occhi due mani e una voce, una voce che ad ascoltarla ti racconta qualcosa del tuo passato anche se non lo hai vissuto, qualcosa del suo futuro, anche se lo conosci già. Ogni tanto, insomma, succede di sentire in maniera partecipata, come a tenere un orecchio appoggiato al petto dell'altro per ascoltare se stessi, il proprio cuore che si muove, ma è chiaramente il cuore dell'altro che accoglie la voce che, dentro se stessi, fa eco e produce un riverbero che si diffonde e accompagna la notte. E si riposa con un mezzo sorriso e i lobi degli orecchi accordati con Alfa Centauri. E si ritrova la luce nel sonno, una carezza nel buio, nel momento in cui tu senti soltanto te stesso.

«Does this sound dismal? It isn't.
It's the most wonderful life on earth.
Or so I feel.» Id.

Vorrebbe parlare del personalismo

L'amica Fatjona Lamçe su fb ha postato questo:
«Accendo la tivù e vengo catapultata con ribrezzo dentro uno studio orribile dove Mentana e Renzi conversano. Si parla del fatto che la sfida elettorale è sostanzialmente tra tre figuri Renzi stesso, Grillo e Berlusconi, e Mentana fa una finta-domanda a Renzi sui partiti personalistici. Sentito "personalistici", Renzi dice "vorrei parlare del personalismo comunitario di Maritain ma il suo share crollerebbe". Cosa c'entrano i partiti personalistici con il personalismo comunitario di Maritain? Niente. Ho la sensazione che il renzismo sia tutto riassunto qui, ma potrei sbagliarmi.»
Non si sbaglia. Aggiungo: ben altro che lo share è crollato a terra.
Inoltre: nel sorrisino a simpatico saputello che egli avrà prodotto si sarà colta per intero la quiddità del boccaperta che è convinto del fatto suo, come i vincitori di Affari tuoi: pacco, doppiopacco e contropaccotto.
Ch'io sia troppo severo? Ch'egli abbia voluto solamente fare un jeu d'Esprit?