«La
notte non porta consiglio, porta, casomai, se non dormi o dormi male
e vorresti dormire, disperazione. La notte presenta il conto di
tutte le inquietudini – e l'agitazione ti
prende alla gola, e cerchi affannosamente
una soluzione per porre rimedio al senso di vuoto, di vertigine, di
solitudine.»
Questo
pensava Elia sul divano, saranno state le cinque e il chiarore del
giorno offriva, finalmente, la soluzione della mattina.
Silenzio
completo, solo i primi cinguettii primaverili, vita che si alza e che
sa già quello che c'è da fare e come farlo al meglio.
Elia
no, non lo sapeva mai e per questo ogni giorno gli necessitavano
alcune mezz'ore, di solito tre, per esser pronto a salire sui binari
della propria vita.
E
pensava: di solito rimestando i sogni e gli accadimenti del giorno
precedente, oppure gli avvenimenti mondani che si impongono nei
media, la politica puttana, raramente di episodi a carattere
sportivo. A volte però, appunto quando la notte era inquieta, vuoi
per un mal di testa, vuoi per altro tipo d'incombenza anche di natura
sentimentale, le ore che precedevano il momento di salire in treno e
andare al lavoro, erano tutte dedicate a sopire, per quanto poteva,
l'inquietudine.
Stamani,
per esempio, dicevamo sul divano, assalito da un'improvvisa erezione,
per cercare di risolverla, Elia si è prefigurato un sentimento che
non gli appartiene e che non sa ricambiare, sfruttandolo, piegandolo
a biechi interessi di natura orgiastica, interpretando un ruolo che
non gli si confà - e lo specchio dello schermo tv riflette quanto
sia ridicola tale postura.
Tuttavia,
pur lasciando cadere tali suggestioni in dispregio, resta immutata in
lui la voglia mattutina e l'unica maniera che conosce è spegnerla
con una doccia, virata sul freddo, dopo che ha messo la moka sul gas,
la maniera che alla lunga ha imparato a preferire, riservando la
soddisfazione ad altre ore del giorno più opportune.
Dipoi,
in accappatoio, si prende il caffè seduto al tavolo di cucina, un
libro aperto a cercare di divergere l'attenzione dal sé. Ma non ci
riesce. L'unica cosa che lo distrae sono i volantini con le offerte
del supermercato. È un'autentica passione, tale lettura. Osserva
ogni prodotto in offerta come se esso contenesse chissà quali virtù
taumaturgiche, come se il facile possesso di tale merce gli
garantisse un sovrappiù di esistenza: «Filetti di tonno del mar
Cantarbico scontati del 50%». Che miseria.
E
il peso che resta.
Ma
il giorno comincia, regolare ma mica poi tanto. Un treno soppresso e
quello dopo con notevole ritardo (e telefonare al capoufficio e
giustificarsi è sempre una pena).
E
anche se le scorie della notte sono interrate dai doveri e dalla
routine quotidiana, una lieve ipocondria lo tiene compresso e il
sorriso resta incassato, lo sguardo velato, il cuore freddo. Finché.
Finché
accade qualcosa che apre la tenda del giorno: le estremità delle
labbra si piegano al riso, nello sguardo si accende una luce – e il
cuore si scalda.
Cosa
accade e perché?
Niente
di particolare, soprattutto: niente di trascendentale. Elia stesso,
quando me ne parla, non riesce a spiegarsi bene, lascia intendere
qualcosa, due occhi per esempio.
«Ma
quali occhi?» gli ho domandato più volte, e lui niente, non ha mai
voluto rispondere.
Un
giorno, per caso, mi sono ritrovato a pranzo nello stesso locale
dove consuma i buoni pasto che gli fornisce l'azienda. Mi ha
pregato di accomodarmi al suo tavolo, avrebbe offerto lui.
D'un
tratto, mentre gli raccontavo della mia tribolata storia con Carla,
dell'indifferenza che è scesa nei nostri cuori, Elia mi mette una
mano sull'avambraccio pregandomi di tacere e guardare verso
l'ingresso.
«Eccola», dice indicandomi con lo sguardo una ragazza sui vent'anni, i
capelli color rame raccolti in alto e fermati con una specie di osso
appuntito.
«E
chi sarebbe?» chiedo; e aggiungo sorridendo: «Ma non è un po'
troppo giovane per te?».
«Non
dire cazzate, ti prego» mi rimprovera. «Guardala bene: sicuro che
non la riconosci?».
No,
non è possibile, dico in cuor mio. Non può essere lei. Il tempo
passa per tutti. E a Elia: «Non, non può essere Lara».
«Non
lo è, infatti» risponde sicuro. «È sua figlia».
«E
come fai a saperlo?»
«Me
l'ho ha detto lei. Vedi, un giorno, il ristorante era pieno, si
è seduta proprio dove sei seduto tu. Manca poco svengo: non riuscii
più a mettere in bocca niente dall'emozione. Ebbi solo modo di
domandare se conosceva una signora di nome Lara O. “Certo, è
mia madre”. Mi rispose e, a sua volta, chiese se la conoscessi».
«E
tu che hai risposto?»
«Per
depistare, ho detto che ero stato suo compagno di classe e che ricordavo bene i suoi lineamenti che adesso rivedevo in lei».
«Credi
che l'abbia bevuta?»
«Non
lo so. E francamente non me ne importa. So solo che da quando l'ho
vista m'è ritornata tutta l'agitazione di un tempo, la stessa
inquietudine. Dormo male la notte, mangio meno del solito, non riesco
più a guardare 8½».
«Che
c'entra la Gruber?»
«Niente,
non c'entra niente la Gruber. È che ripenso, nuovamente e
costantemente, a Lara,
alle sue carezze, al suo abbraccio, ai suoi baci...»
«Possibile
che, dopo trent'anni, tu pensi ancora a lei?».
«In
verità non penso a lei: penso all'amore».
Con
un affettuoso vaffanculo
e un sorriso, gli misi una mano sulla spalla e promisi che, di lì a
poco, avrei prenotato un bel week-end saunistico a Innsbruck per me e
per lui, slovacche comprese.
Con
un vaffanculo un po'
meno affettuoso, mi congedò.
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