martedì 6 ottobre 2015

Scrivere di quelle cose

« Non camuffare nulla, non nascondere nulla, scrivere di quelle cose che sono più vicine al nostro dolore, alla nostra felicità; scrivere della mia goffaggine sessuale, delle agonie di Tantalo, della profondità del mio scoraggiamento – mi sembra di intravederlo nei miei sogni – della mia disperazione. Scrivere delle stupide agonie dell'ansia, e quando terminano, di come si rinnova la nostra forza; scrivere della nostra dolorosa ricerca di noi stessi, messa a repentaglio da uno sconosciuto a un ufficio postale, da un volto intravisto dietro il finestrino di un treno; scrivere dei continenti e dei popoli dei nostri sogni, dell'amore e della morte, del bene e del male, della fine del mondo. »
John Cheever, Una specie di solitudine. I diari. Feltrinelli, Milano 2012, traduzione di Adelaide Cioni (pag. 190)

Inutile ora ripresentare alla mente lo scambio di occhiate improvvise di due sconosciuti, che avrebbero avuto potenzialmente qualcosa da dirsi e che invece non si sono detti niente e, probabilmente nell'una e sicuramente nell'altro, hanno fantasticato sulla possibilità del perdurare degli sguardi dai quali sarebbe scaturito un sorriso e da esso uno scambio di due o tre frasi minime, convenevoli, che ne dici di un caffè rapido, hai tempo, ho tempo, due tempi, fuori piove e appunto il caffè è necessario per rendere timidi questi sguardi prima furtivi adesso un po' troppo esuberanti, la fantasia unita al desiderio precipita gli eventi, non c'è più tempo, c'è la fatica, resta soltanto l'ombra di un sorriso che si sfoca.


1 commento:

siu ha detto...

Ma quanto mi piace questo Massaro che traduce nel concreto (concreto? ;-)) il discorso più in generale di Cheever, che a scanso di equivoci mi piace altrettanto :-))