domenica 25 ottobre 2015

Una storia da raccontare



Avevo un amico, più vecchio di me, che beveva e fumava così. È morto, un cancro alla gola. Avevo un amico e, nonostante non fosse un intellettuale e leggesse soltanto la Nazione e parlasse quindi soltanto di cronaca e di sport, lo stavo ad ascoltare volentieri, molto volentieri, perché non era importante per me quello che diceva, ma come lo diceva, quanta parte di sé metteva in scena parlando, quanta vita consumata narrava. E ripeteva, ripeteva sempre le stesse cose, le stesse storie e io facevo finta di non averle mai ascoltate, mi piaceva sentirle dando l'impressione che fosse la prima volta, e in un certo senso lo era perché ogni volta si rinnovava il piacere dell'ascolto. Poi, a un certo punto, le quaranta sigarette (unite forse al vino da tre soldi) gli tolsero la parola. Fu operato e perse la voce. Gli restava soltanto un gracchio in gola e per capire quello che diceva bisognava osservare attentamente i movimenti delle labbra. Sembrava una rana o un pesce quando parlava e io non lo capivo più, faticavo a seguirlo e, peggio ancora, provavo come una sorta di fastidio ad ascoltarlo, era più forte di me. Mi dispiaceva, non lo facevo apposta, non riuscivo più a comprendere quello che mi raccontava, né ci mettevo la medesima partecipazione. Mi affidavo alla memoria delle storie già raccontate, ai gesti, alla sua intramontata mimica facciale. Delle volte s'incazzava pure perché facevo finta di aver capito, quando invece avevo capito fischi per fiaschi. Fatto sta che dopo un po' mi faceva fatica stare a sentirlo. Io avevo poco da raccontare, come sempre, la nostra amicizia si era sviluppata così: con lui che parlava e io che ascoltavo. E ora lui non aveva più voce e io non avevo più orecchie. Era diventato meno piacevole stare insieme, sia per lui che per me. 
Poi un giorno, era luglio e faceva un gran caldo, gli prese una gran febbre e fu ricoverato d'urgenza a Careggi. L'ultima volta che l'ho visto era disteso in un letto della sala di rianimazione, con un polmone artificiale che lo faceva respirare al posto suo. Aveva la faccia perfettamente pulita e serena. Sorrideva quasi, e sotto le palpebre chiuse mi sembrava scorressero i sottotitoli di un'ultima storia da raccontare. La sua.

1 commento:

Olympe de Gouges ha detto...

se dico "bello" uso un'aggettivo del cavolo, comunque bello.