mercoledì 29 novembre 2017

Una famiglia per bere (2)

Mia sorella ha quarant'anni ed è, ancora più di mia madre e di moglie, la donna più importante della mia vita. Vorrei anche poter dire il contrario, cioè a dire che io sono l'uomo più importante per la sua, di vita, ma non posso, io sono infatti il fratellino da sorvegliare e accudire, medicandogli le ferite che si procura vivendo una vita considerata da tutti una vita da sconsiderato.
E perché? Perché non ho finito gli studi nonostante gli esami sostenuti e la tesi quasi in dirittura d'arrivo? O forse perché una sera su due tornavo a casa malconcio per aver bevuto troppa birra alla spina o aver fumato troppi spini alla birra? Vomitavo. Stavo ore chino sulla tazza del cesso, finché non mi sentivo completamente liberato. E lei era lì, a prepararmi la citrosodina, o il bicarbonato, o semplice acqua calda con un po' di zucchero, per farmi recuperare un po' di forze e togliere l'amaro insopportabile che mi restava bocca.

Mia sorella, purtroppo per me, andò via presto di casa. Si sposò con un suo coetaneo che era innamorato follemente di lei (lei lo era razionalmente di lui: figlio di un imprenditore edile e di una palazzinara, era uno dei partiti più ambiti della città, e senza neanche bisogno di concedere il voto di scambio), andò ad abitare in centro, in uno dei quartieri più in vista: attico di duecento metri quadri, e duecento quadri alle pareti, molti del Novecento italiano, tra cui due Casorati, un Savinio tre Rotella e un Sironi di attribuzione incerta in cui era raffigurato il Duce (questo lo tenevano in stanza di disimpegno). Io mi ricordo che la prima volta che andai a casa loro e lo vidi, mi venne spontaneo sputargli, ma - prevedendomi - mia sorella mi mise repentina la mano sulla bocca, promettendomi successivamente che avrebbe fatto di tutto per sbarazzarsene vendendolo a qualche imprenditore nostalgico, tipo Carlo Vichi della Mivar.

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