«Anche una propria occhiata si ricorda quanto e forse meglio di una parola; è più importante di una parola perché non v'è in tutto il vocabolario una parola che sappia spogliare una donna. Io so ora che quella mia occhiata falsò le parole che avevo ideate, semplificandole. Essa per gli occhi di Ada, aveva tentato di penetrare al di là dei vestiti e anche della sua epidermide. E aveva certamente significato: "Vuoi venire a letto con me?"».
Italo Svevo, La coscienza di Zeno
È da ieri notte che consulto il vocabolario e, finora, non ho trovato alcuna parola che sappia spogliare una donna. O un uomo. O un cane. No, un cane non si spoglia, a parte quelli di piccola taglia che, d'inverno, padrone e padroni rivestono con mantellini in filo di scozia.
E, dunque, esisterà mai una parola che possa spogliare una persona al solo pronunciarla o scriverla?
Spoglia. Terza persona singolare del verbo spogliare. Ma non solo.
Spoglia dalle mie parti si usa anche come sostantivo: la spoglia intesa come impasto di farina e uova. Ho udito questa parola fin da piccolo (forse persino nel grembo materno) quando mia madre tirava la spoglia per fare tortelli, ravioli, tagliatelle e tagliolini. E ripensando a quel bambino che osservava quei gesti domenicali che realizzavano la spoglia, e rivedendo apparire sulla spianatoia della mente quella superficie quasi circolare, trovo che in essa sussista una tenue capacità di spogliare una persona delicatamente, o meglio: di sfogliarla, veste dopo veste, pagina dopo pagina, come un albero d'autunno si spoglia, a ogni refolo di vento, delle proprie foglie. La spoglia, in quanto corpo umano nudo, privo di supposizioni, restituito a se stesso e allo sguardo altrui, all'occhiata che desidera e sogna lo spoglio (non elettorale) delle proprie inibizioni.
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