martedì 31 agosto 2010
Il colore del blogger
lunedì 30 agosto 2010
Il Fuoco sacro. Introduzione (ii)
Questi sono i fatti osservati: è un bene o un male? A ognuno il suo giudizio. L'agnostico li deplora, il credente e l'inquieto se ne felicitano. Rimane da spiegare queste persistenze e risorgenze – sia che si approvi o che si disapprovi tale (vana) ricerca.
Le inchieste empiriche concordano, pare, su un punto: degli uomini in qualche posto riuniti e tenuti insieme da un calendario non possono non sentirsi infedeli a una promessa, inferiori a un precursore, devianti da una linea dritta (Libro sacro e fondatore, progetto o giuramento di fede). Nel caso dei francesi: «Figlia primogenita della Chiesa, sei tu fedele alle promesse del tuo battesimo?» o ancora: «Figlia primogenita della Rivoluzione, sei tu fedele ai principi del 1989?». Di questo difetto da rimediare, di questo debito mai estinto, il cristiano ne dà una traduzione morale, in termini di colpa e peccato. Ma da dove viene questo sentimento universale di deficienza, e che si abbia, a ogni ripresa, bisogno di un più per fare un noi? E perché questo noi, sia esso in India o negli Stati Uniti o in Iran, qui o altrove, ci oppone sempre a un loro? [...] Conoscete una nazione che non si sia inventata un suo eroe fondatore? Una paese che non abbia suo luogo sacro? Una Carta dei diritti che non comincia con un'invocazione? Una terra abitata senza una stella nel suo firmamento?
I nostri diversi oggetti di superstizione non saprebbero più a lungo nasconderci ciò che muove l'umile ossequioso a piazzare sempre il suo infra sotto l'egida di un super. D'altronde, quale interesse avrebbe presentato per noi un Misericordioso se fosse stato soltanto un narcisista e un presuntuoso? Se il Creatore «dai più bei nomi» attacca bottone con le sue creature, è a questo "cuore a cuore" che si deve domandar ragione, è lui il sole nero dei miraggi collettivi, che ci spinge in avanti da un disastro all'altro, e se la notte è lunga è perché il giorno [Egli] è qui con noi. Non c'è crepuscolo mitologico che non annunci un'aurora. La morte e la trasfigurazione di un taumaturgo incompreso (senza contare i profeti con un più debole raggio di azione quali Mustafa Kemal Atatürk o George Washington) non avrebbero potuto irradiarsi così lontano e per così tanto tempo se esse non avessero preso il posto di una lunga serie, su un canovaccio ben collaudato [...] L'aderente non ha mai lesinato. Se egli non crede più a Dio che delle sue mutande, converrete che [l'adesione] sarà rivolta a Lenin o al Führer, o al Dalai Lama, o a Lacan, o al proletariato, o al proprio oroscopo, o alla Repubblica, o a Sion, a Mao, alll'Umma, a Zidane, alla Nike o alla Disney, perfino di nuovo al Cielo, e la lista degli autori benedetti non è certo chiusa.
Régis Débray, Le Feu sacré, Fayard, Paris 2003 (pag. 15-16, trad. mia)
Realtà dislessica
Il Fuoco sacro. Introduzione (i)
Una storia mediologica delle invenzioni cruciali, dalla ruota alla scrittura alfabetica, ci ha permesso di chiarire l'emergenza, ieri mattina (VII sec. a.C.), di un Padre eterno e uno solo¹.
Tale storia ha lasciato nell'ombra la fonte dove si abbeverano le illusioni elettrizzanti – Deutschland über alles, France éternelle, Società senza classi, Regno dei Diritti dell'Uomo, Nuovo Ordine internazionale, Comunità delle Nazioni – venute in seguito a galvanizzare delle società sazie, alleggerite da ogni Assoluto. Anche in Europa dove, in controtendenza col mondo, l'individuo-re non riconosce più niente che gli si imponga o che lo obblighi e in cui il deperimento del sistema cristiano relega la fede alla sfera privata, l'avanzata del sacro e del santo, nel discorso pubblico, non si è certo fermata. L'eclissi proclamata delle trascendenze ha più stimolato che scoraggiato la nostra ricerca dei «valori indivisibili e universali», delle «referenze intangibili», dei «principi supremi», o dei «padri fondatori», di cui una modernità tanto presuntuosa quanto ingenua ci prometté un tempo di sbarazzarci.
Non è più la persona ma la funzione dio che si vorrebbe interrogare. La prima è instabile e mutevole, la seconda è motrice. E stabile. Riguardo al Sapiens sapiens sia d'Occidente che d'Oriente, del silicio o del bronzo, se c'è qualcosa in lui d'indomabile è la sua incapacità di accontentarsi non tanto di ciò che ha, quanto di ciò che è (e questo pare poco comprensibile e, probabilmente, senza speranza). Questa stimolante insoddisfazione si attesta nell'Homo religiosus, che ci ripete in tutte le lingue: «Ciò che voi siete non è, allo stato, accettabile. L'apparenza che voi percepite non il Reale (il velo di maya, v'impedisce di accedere all'Uno). E ciò che voi credete di essere oggi non è quello che voi dovrete essere domani per uguagliare ciò voi sarete all'inizio della vostra carriera». Un cambiamento nell'essere è dunque necessario, che farà morire l'ingrato dimentico della fede per farlo rinascere alla sua verità, per far di lui un risvegliato, un consacrato, un riunificato, in breve: un uomo riconciliato con se stesso. Questa insoddisfazione può servire da minimo denominatore comune al brahmano, al buddista, al cristiano, al musulmano, e altresì al taoista, giacché anche nella più ottimista delle religioni, che fonda la trascendenza nell'immanenza, l'essere unico e integrale è ancora da raggiungere. Se ci si lascia andare, si perde la propria vocazione. Raggiungere il principio creatore del cosmo esige sforzo e tensione costanti. Come fu detto fin dall'impero di Mezzo, le armonie celesti non cadono dal cielo.
Questa incompiutezza, questo deficit da colmare ispirano al povero diavolo convinto della propria insufficienza il desiderio di operare un lavoro su se medesimo, ricorrendo a una regola o a una disciplina. Queste disintossicazioni che mirano ad alleggerire il corpo e lo spirito dai cattivi grassi della mondanità vengono chiamate ascesi. Esse possono essere fisiche (digiuni, mortificazioni, danze o ginnastiche rituali), mentali (preghiere, meditazioni, esami di coscienza, letture), e più comunemente di entrambi i tipi. Si parlerà allora di conversione, di iniziazione o di santificazione. Sia che si miri ad abbracciare i ritmi naturali (il taoismo), o a disfarsi di una individualità illusoria (il buddismo), o a riassorbirsi nel tutto primordiale (l'induismo), o a obbedire a un Profeta (l'islam), o a redimersi dal peccato originale (il cristianesimo), nonostante vi siano differenti vie per pervenirvi [all'Essere], rimane evidente che resta sempre e ancora del cammino da fare. Infine, questi debitori in difetto occupati a risalire la loro china avrebbero bisogno di guide abilitate, mediatori o intercessori, gobetweens distinti che indossano un costume riconoscibile. Si ritroveranno questi professionisti dell'incantesimo – indovini, stregoni, sciamani, maestri yoga, preti e commissari del popolo – sotto diversi colori e regimi, qualsiasi epiteto gli si affibbi – poli, mono, pan-teisti o anche atei (società senza classi, lavoro militante e partito d'avanguardia usano strumenti simili).
Régis Debray, Le Feu sacré, Fayard, Paris 2003 (pag. 13-14 trad. mia)
¹ Vedi R. Debray, Dio, un itinerario, Raffaello Cortina, Milano.
Il Fuoco sacro. Introduzione
Ecce homo
Strano alternarsi. Chiunque consulti il dossier “Dio” scopre il vigore dell'Eterno, nato appena venticinque secoli fa; e chiunque apra i giornali scopre la vecchiezza delle notizie di attualità. Il nostro mondo contemporaneo, che vuole tanto farsi giovane e disinvolto, inciampa su degli anacronismi – anatemi, paradisi e guerre sante. Ce n'è abbastanza per chiudere la questione Antico-Moderno, con le sue sapienti coppie di opposti, archeo/neo, reazionario/illuminato. Queste care vecchie antinomie hanno fatto il loro tempo – e perso la loro forza esplicativa. Non è più il momento del pensiero della prossimità, né di miopi paure. Guardare al qui e ora da vicino, d'accordo, ma riflettendoli lontano [nel tempo e nello spazio], mediante l'ancestrale e l'esotico, è diventata la condizione di ogni buona prospettiva.
Régis Debray, Le Feu sacré, Fayard, Paris 2003
domenica 29 agosto 2010
La vita è colpa
«Colpa, nel suo significato più ampio, è la vita in quanto tale. Ciò che già pensava Anassimandro ritorna – sebbene in un senso totalmente diverso – in Calderón: la più profonda colpa dell'uomo è di essere nato.
Ciò risulta anche dalla considerazione che io, per il solo fatto di esistere, sono causa di sventura. Espressione di un simile concetto è il pensiero indiano che con ogni mio passo, con ogni mio respiro io distruggo qualche minuscolo essere vivente. Ch'io faccia o non faccia qualcosa, sta di fatto che la mia vita provoca una riduzione della vita altrui. Tanto nell'agire quanto nel patire io mi macchio della colpa di esistere.
a) Una determinata esistenza può essere colpevole per la sua origine. Non l'ho voluta io, è vero, questa mia esistenza, come non ho voluto l'esistenza in genere. Eppure, sebbene involontariamente, io sono colpevole, essendo io colui che ha una tale origine. È la taccia di un'origine peccaminosa di cui i miei avi sono responsabili. […]
b) Ogni determinato carattere umano ha la colpa di essere quello che è. Il carattere stesso è un destino, se io mi distacco dal mio carattere come da una realtà estranea.
Ciò ch'io sono, il tipo umano a cui appartengo, come radice della mia volontà funesta, dell'ostinata tracotanza della mia natura malvagia, tutto questo io non l'ho voluto né prodotto. Eppure ne ho colpa. E dalla mia colpa nasce il mio destino, sia che muoia contro voglia, irredento, sia che soccomba ravveduto, uscendo dalla mia natura spinto da una causa più profonda, grazie alla quale rifiuto ciò che io fui, senza poter divenire ciò che vorrei».
Karl Jaspers, Del tragico, SE Studio Editoriale, Milano 1987 (traduzione di Italo A. Chiusano. Il testo originale è del 1952).
sabato 28 agosto 2010
Verità surrealista
Gad Lerner su Rep: «È Giancarlo Cesana, responsabile laico di Cl divenuto presidente del Policlinico di Milano, a introdurre l'appuntamento più atteso, la lectio del Patriarca di Venezia, Angelo Scola. Tema: "Desiderare Dio. Chiesa e post-modernità". Saranno diecimila, non vola una mosca. Cesana estrae un foglietto per spiegare in due esempi il vizio della post-modernità. Racconta dello studente universitario cui chiese un giudizio sull'aborto: "Ognuno la pensa come vuole", fu la risposta che ancora lo indigna. Del resto, aggiunge, nella Russia comunista, "è lo stesso" non divenne forse l'intercalare più comune?
Preparato il terreno, Cesana vibra il fendente decisivo. Una citazione di Umberto Eco dalle pagine conclusive de Il nome della rosa, allorquando Guglielmo di Baskerville contempla l'incendio della biblioteca e della chiesa. Eccola.“Temi i profeti e coloro che sono disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro (...) Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla morbosa passione per la verità”. Applauso scrosciante di riprovazione».
«La vostra verità vi rende schiavi ma voi non lo sapete. Defecate sulla verità, soprattutto su quella creduta con tanta fede».
Dentro di me penso: facevo meglio a proseguire la breve vacanza e andare a vedere l'incoronazione di miss trans al Priscilla di Torre del Lago. Oppure, dal Tirreno all'Adriatico, fare un salto al Mitinghe di Rimini. Vado pazzo per i surrealisti.
P.S. Vi consiglio di andare a vedere la sezione A new kind of beauty di Mr Toledano. Grande fotografo.
Un cuore semplice
Leggendo, su Repubblica di oggi, l'articolo di Ettore Livini che racconta delle “sinergie” politiche e (soprattutto) economiche tra Berlusconi e Gheddafi (d'ora in poi B&G) con tutti i contorcimenti e gli aggrovigliamenti finanziari e societari e gli ammanicamenti di loschi figuri legati a doppio filo coi due ras in oggetto (B&G appunto), un cuore semplice non può che constatare, con stupefatta meraviglia, la fitta coltre di merda con la quale il potere dei Principi e delle Potestà soffoca il mondo. Ma, allo stesso tempo, ad un cuore semplice – che ingenuamente crede ancora nei principi che, sulla carta, regolano le moderne democrazie – viene da chiedersi: se gli attori in campo fossero diversi lo stupore sarebbe simile? Se al posto di B&G ci fossero degli illuminati lettori di Locke o di Tocqueville, di Montaigne o di Hume, la sostanza del potere cambierebbe? Il profumo della merda che lo copre sarebbe diverso, più sopportabile? Proverebbe sollievo o tranquilla indifferenza il nostro animo mite e gentile? Si rassegnerebbe pacatamente o monterebbe in lui la stessa simile ripulsa, la stessa profonda indignazione? Il cuore semplice presume che al variare degli elementi la sostanza non cambi, ovvero la puzza sarebbe più o meno la stessa. Certo, se al posto di B&G ci fossero un Obama o un re Hussein di Giordania forse essi riuscirebbero, in un certo qual modo, a rendere meno acre l'olezzo della discarica¹ sistemica sulla quale si fonda l'odierno establishment politico e finanziario. L'unico modo per non sentire l'odore è essere parte del sistema.
Un cuore semplice è, per definizione, un outsider. Ma il vero stupore, che tende quasi alla rabbia, è per lui constatare come la maggior parte degli umani liberi (in teoria) dai vincoli di un potere assolutistico e dittatoriale (quelli sotto i B del mondo, per intenderci; sotto i G è francamente più complicato) conviva serenamente con tale puzza senza – parrebbe – avvertirla, o altresì, qualora venisse da loro percepita, tali uomini e tali donne non si preoccupino, come lui, di chiedere a propri simili se anch'essi patiscano l'aria malsana e nauseabonda.
Ora, un cuore semplice non nutre certo l'ardire di ordire moti rivoluzionari di qualsivoglia tipo, dato che nel suo animo alberga da sempre un sano scetticismo che lo tiene alla larga dalle trombe dei vari slogan alla «un altro mondo è possibile». Per il cuore semplice il mondo è questo qui, l'unico possibile: inutile «prendere le armi contro il mare di guai e combattendo finirli»: preferisce «dormire, sognare forse», rifugiarsi, come Amleto, in una lucida pazzia. E allora? Bene, al cuore semplice non resta che rivolgersi al singolo, all'individuo, al volto, alla facies per dirgli queste cose, queste facezie, per capire se anche in quello specchio di sé che è l'altro, fosse avvenuta una simile rivelazione: siamo governati dalla merda, cazzo, almeno diciamolo (o diciamocelo)!
Un cuore semplice non parla al popolo, alle genti, al volgo perché nella massa si diventa tutti delle teste di cazzo e non ci si riconosce; egli spera che, in un futuro non troppo lontano, avvenga una graduale demassificazione dei popoli e delle genti, tale che possa automaticamente gettare tutti i vari B&G del mondo col culo per terra fino a farglielo diventare rosso come quello dei nostri cugini bonobo.
Un cuore semplice, per esserlo veramente, è ben consapevole del rischio che basta poco per diventare o per essere dei Geronzi (Geronzi dentro, s'intende; fuori è un pochino più complicato). Ma questa consapevolezza lo aiuta a camminare sereno nei prati senza affatto preoccuparsi di pestare secca merda di vacca, sicuro che se anche avvenisse il puf che essa emanerebbe avrebbe sentore di timo serpillo.
¹ Il denaro è il concime del mondo, è l'elemento simbolico che perseguita l'umanità da svariati millenni. Un simbolo ci tiene per le palle, ci infibula, ci marchia a sangue fin dal nostro primo vagito (e anche prima). Siamo talmente vincolati al denaro, noi esseri umani, che nessuno (o solo pochi pazzi o visionari) prova più a immaginare di guadagnare (sic!) la libertà da esso.
mercoledì 25 agosto 2010
Un post storto. Vari tipi di cristianità
A prescindere dal fatto che da qualsiasi fronte vengano gli attacchi contro Berlusconi essi sono per me benvenuti, questa volta però (assolutamente non per difendere l'indifendibile) sento un po' di fastidio nell'attacco che Famiglia Cristiana sferra al premier. Certo, è da un po' di tempo che il settimanale dei paolini si dimostra critico nei confronti del berlusconismo, ma in questa occasione sembrano aver colpito duro. Leggiamo un pezzo di tale editoriale:
«La discesa in campo di Berlusconi ha avuto come risultato quello che nessun politico nel mezzo secolo precedente aveva mai sperato: di spaccare in due il voto cattolico (o, per meglio dire, il voto democristiano). Quale delle due metà deve fare “autocritica”: quella che ha scelto il Cavaliere, o quella che si è divisa fra il Centro e la Sinistra, piena di magoni sui temi “non negoziabili” sui quali la Chiesa insiste in questi anni? A proposito. Ivan Illich, famoso sacerdote, teologo e sociologo critico della modernità, distingueva fra la vie substantive (cioè quella che riassume il concetto di “vita” mettendo insieme, come è giusto, e come risponde all’etica cristiana, tutti i momenti di un’esistenza umana, dalla fase embrionale a quella della morte naturale) e ogni altro aspetto della vita personale o comunitaria, a cui un sistema sociale e politico deve provvedere.
Il berlusconismo sembra averne fatto una regola: se promette alla Chiesa di appassionarsi (soprattutto con i suoi atei-devoti) all’embrione e a tutto il resto, con la vita quotidiana degli altri non ha esitazioni: il “metodo Boffo”(chi dissente va distrutto) è fatto apposta.»
Alcuni rilievi. A me sembra che non fu Berlusconi a dividere il voto cattolico, bensì fu il crollo della Democrazia Cristiana a dividere l'elettorato cattolico. Un amico, negli anni successivi alla scomparsa della DC, mi diceva: «Tanto prima o poi rifaranno la palla». Ancora non è avvenuto che i democristiani abbiano rifatto la palla, e forse mai avverrà. Ma è davvero questo che alcuni cattolici, Famiglia cristiana in testa, vogliono? Se sì, perché non lo dicono chiaramente? Se invece no, non è abbastanza pacifico che vi siano cattolici diversamente stronzi (Bossi dixit) o diversamente santi?
Cioè, uno va a votare con la fede in tasca: cosa mai vuoi che voti se non quello che va bene alla sua fede? Ché deve andare contro la sua fede per il bene comune, per la nazione (fede diversa)?
Quello che promette (ha promesso) Berlusconi alla Chiesa, e cioè difesa dell'embrione, posizioni integraliste sui temi bioetici, è quello che la chiesa ufficiale chiaramente vuole da qualsiasi governo. La sinistra, i democratici non glielo possono promettere, sono più cazzoni, indecisi, hanno meno pelo sullo stomaco, e non hanno nemmeno più la Binetti (hanno però ancora persone come Fioroni e Castagnetti a tenere la barra ferma sul cattolicesimo democratico).
Il metodo Boffo è un metodo che la Chiesa ha attuato più volte nel corso della sua storia secolare (anche se questo certo non ne giustifica l'uso da parte delle guardie del corpo mediatiche berlusconiane).
Poi non si devono toccare i veri santi come Ivan Illich senza dire per bene chi essi furono: Illich fu un prete spretato, un sacerdote che per protesta abbandonò la Chiesa di Roma. Se me lo si cita a rinforzo della propria tesi senza far notare al lettore cristiano questo particolare, a mio avviso si commette una piccola frode.
Infine, il voto cattolico: cosa distingue per esempio il cattolicesimo ciellino da quello paolino?
Ma forse la vera domanda da porre a Famiglia Cristiana (e ai cattolici in genere) è questa: che tipo di cristianità hanno in mente?
«La chiesa è oggi incerta tra due modelli opposti: il modello tradizionale della chiesa come cristianità, come ordo christianus al quale ritornare dopo la ribellione moderna (a questo inclina anzitutto il bisogno di sicurezza psicologica che spinge la gerarchia verso l'illusione di rinnovati trionfi, e introno ad essa suscita consensi), e il modello della fine della cristianità, del fermento cristiano ancora sparso, come all'inizio, nell'oscura pasta del mondo (a questo obbliga la consapevolezza critica, ma manca una teologia capace di pensarlo adeguatamente)».
Sergio Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984
Quinzio divide bene i due modelli di “chiesa”. Il punto è: se si sta dentro la prima tipologia cristiana, secondo me, Berlusconi va benissimo, anzi. È il prototipo del principe cristiano per eccellenza, farabutto dentro alla Costantino, che pur di conservare il potere e sopravvivere concede spazio all'ordo christianus fino a farsi suo migliore interprete e garante supremo dei “valori” cristiani. Paradossalmente, però, Berlusconi è il principe (o la potestà) migliore anche per il secondo tipo di cristianità, quello della fine del cristianesimo nella storia, dacché egli è la rappresentazione più manifesta che la religione cristiana (e il cattolicesimo in particolare) è una religione che per sopravvivere ha un fottuto bisogno di appoggiarsi al potere; di più, che è essa stessa potere mondano in perpetua ricerca della modalità più efficace per conservarlo ed estenderlo. Per questo, anche ai cristiani della fine della cristianità, Berlusconi rende un servizio egregio perché rende evidente, agli occhi di vuol semplicemente vedere le cose come sono, che la religione cristiana, la cattolica in particolare (come tutte le religioni in fondo) è un potere che ritarda l'Apocalisse, la venuta del Regno, la Rivelazione. Come Gesù Cristo ha dimostrato al mondo che anche un Dio può morire (dato che non c'è o se anche ci fosse a nessuno è dato sapere chi Egli sia né è dato credersi suo eventuale tramite o intercessore) adesso sta alla Chiesa, sua figlia prediletta, dimostrare che la Religione può e deve morire per lasciare libero l'uomo nel mondo. Crocifiggere il religioso per liberare l'umano, per lasciarlo al suo destino, alla sua totale responsabilità, alla sua ineluttabile immanenza. L'uomo, il mondo è qui, si gioca qui la vita di tutti, dentro i propri corpi che resistono al corrosivo passare del tempo – inutile tentare di respingere i propri limiti in un aldilà di cui pochi chierici conserverebbero le chiavi.
Ma il problema è: esistono questi secondi tipi di cristiani? E se anche ci fossero, Famiglia Cristiana intende rappresentare la loro voce? O forse, nel tipo di cattolici che essa rappresenta, c'è la percezione che tale tipo di rapporto tra Chiesa e Potere (leggi: Chiesa & Berlusconi) sia veramente una sciagura per la Chiesa stessa e si cerchi di porre riparo non per allontanare il religioso dal mondo, ma per tenerlo incollato bene per terra?
Mah, questo post mi sembra un po' storto. Domani vo a Pisa per raddrizzarlo. Intanto leggete questo meraviglioso post di Popinga che ci lancia sulle costellazioni vangoghiane.
martedì 24 agosto 2010
Segnalazioni vicino-orientali
Sulla questione del conflitto tra israeliani e palestinesi non ho molto da dire, ma trovo interessante la piega che ha preso il discorso inaugurato ieri da Andrea Zanni con una lettera a Malvino, il quale ha risposto da par suo ma trovando nei commenti suggestivi interventi e contrastanti (leggere Leonardo e Qubrick); poi c'è Giovanni Fontana con un post suo e un suo articolone sul Post. Inoltre, tra il non letto di ieri, trovo Eschaton, il quale, parlando di un libro pseudo-provocatorio di Shlomo Sand, L'invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, tra le altre cose scrive:
«La ricerca di Sand è interessante, fintanto che si limita a raccontare le operazioni culturali e ideologiche messe all’opera nell’Ottocento per costruire il mito sionista. Nessuna segreta cospirazione: un libro simile lo si potrebbe scrivere su Mazzini o sull’abate Sieyès, su George Washington, su Ataturk. Ma Sand questo non lo dice, e si capisce che sta cercando lo scandalo. Lo storico israeliano, specialista della storia dei nazionalismi, dimentica di segnalare ai lettori meno accorti che gli ebrei non sono un’eccezione: è proprio il concetto di popolo a essere una finzione, qualcosa che va costruito, una moda ottocentesca. Vale per gli ebrei, per gli italiani, per i francesi e perbacco… per i palestinesi. Ecco, appunto, i palestinesi. Ma Shlomo Sand non scrive nemmeno un capitolo sull’invenzione dei palestinesi, un popolo tanto vero da chiamarsi come una divisione amministrativa dell’impero romano.
I popoli sono tutti inventati, e questo non li rende meno reali. Sono la forma provvisoria che prendono certe rivendicazioni economiche e politiche. La maggior parte delle nazioni nasce da un programma d’ingegneria linguistica e filologica, talvolta da una falsificazione. Probabilmente il sionismo fu un progetto davvero catastrofico, tra i peggiori esiti del nazionalismo ottocentesco, ma gli argomenti di Shlomo Sand non lo rendono più sbagliato».
Infine, come supplemento, segnalo anch'io un libro: Régis Debray, À un ami israélien, Flammarion, Paris 2010 (ancora non tradotto) e, sempre di Debray, un'intervista radiofonica con la partecipazione dell'ex ambasciatore israeliano a Parigi.
Fare bene è non fare
A pag. 9 del Corriere della Sera di oggi Roberto Bagnoli offre un resoconto dell'intervento che il ministro Sacconi ha tenuto ieri al Meeting di Rimini. Leggiamo:
«Penso sia opportuno lanciare un manifesto per la vita, la sussidiarietà e l'antropologia positiva». Maurizio Sacconi, ministro del Welfare e in questa occasione guru delle energie del fare, offre alla platea ciellina del Meeting un piatto ricco e particolarmente succoso. «Al di là delle parole difficili – continua – vorrei che nella società si cominciasse a riflettere sulla negatività della sfiducia, del pessimismo». Per questo Sacconi, tra ondate di applausi entusiasti del popolo di don Giussani, fa un «appello a credenti e non credenti uniti da una comune concezione della laicità adulta» [...] «Su questi temi ampi, come sulla biopolitica, ma anche sul federalismo, giustizia e riforma universitaria – precisa – è possibile trovare in Parlamento una maggioranza più ampia». Il suo messaggio è rivolto soprattutto al mondo cattolico ma non solo. «A tutti coloro che hanno una sensibilità verso la positività, verso il fare e non per gareggiare e basta».
Quando leggo cose simili, divento un misantropo assoluto e penso che sarebbe opportuno attaccare sul groppone di ogni essere umano un manifesto per la morte, per l'egoismo e l'antropologia negativa. Sono occasioni, queste, in cui divento volentieri un guru della catalessi, del nirvana, dell'annullamento dell'io, soprattutto dell'io di chi fa discorsi come quello di Sacconi e di chi lo riporta senza provarne ribrezzo. Ecco allora che io, alla platea ciellina, più che un piatto ricco, non potrò offrire altro che la mia bile, i miei succhi gastrici, il mio vomito. Parole difficili, terribili le mie, dato che sento la necessità, l'urgenza di scuotere le coscienze inebetite che ancora sono disposte a berla sulla fiducia e sull'ottimismo dell'uomo verso l'uomo. Balle, son tutte balle: guardatevi in faccia e piangete, disperatevi, urlate, strappatevi le vesti e scappate da simili congregazioni pestilenziali per l'animo umano. La laicità adulta? Credenti o non credenti, ascoltate il mio d'appello: andate a farvi fottere, o meglio, andare a fottere il vostro prossimo, ma con delicatezza, con garbo, che fottere è l'unico modo certo per godere in questo pazzo mondo di castrati mentali che voglion fare fare fare fare:
Con quali azioni invece di canzoni
Chiara faremo la tua notte nera
Terra che bruci, terra che dolori
Tristezza d'uomo, malattia d'uomo?
Fare dolore è tutto il vostro fare:
Se tu hai guardato in una faccia d'uomo
Non fare niente; fare bene è non fare.
Guido Ceronetti, Compassioni e disperazioni, Einaudi, Torino 1987
lunedì 23 agosto 2010
Cronaca di un ritorno
domenica 22 agosto 2010
On rentre à la maison
sabato 21 agosto 2010
Uno scalcinato post
E. Montale, Ossi di seppia.
Ecco, ora non vorrei scomodare versi inflazionati, ma essi mi servono per introdurre un discorso confuso, scaturito dalla lettura di alcuni post (citati in seguito).
Il mondo è questo. Siamo chiusi qui dentro questa sfera celeste, senza nessuna possibilità di evadere. E chi vuole evadere? E in che modo, se uno volesse, può farlo? Il suicidio potrebbe una soluzione, ma la vita (umana) è già così “corta” rispetto agli eoni. Qualcuno evade stordendosi la mente o con le droghe o con vari tipi di religione che fanno pensare in continuazione all'aldilà, fanno sperare nell'aldilà. Essere dei semplici “realisti” può essere, concedo, limitante. Persone (limitate?) che non vogliono “evadere”, vogliono stare in questa prigione chiamata Terra. Degli ingenui che si accontentano del mondo così come è. Beh, accontentarsi è una parola grossa. Diciamo che lo ricevono in dote. Ai nostri contemporanei occidentali è andata piuttosto bene in paragone ad altre epoche storiche o ad altri luoghi della terra pieni di calamità, di miseria, di persecuzione. Dunque, tutto va più o meno bene. Abbiamo tempo perfino per leggere Adorno. Oppure per usare utensili di falegnameria per costruire una sfera di legno perfettamente inutile, così per soprammobile. Molti di noi hanno, chi più chi meno, un lavoro, un reddito, un alloggio, le ferie pagate, tempo libero.
Questo discorsetto inutile per introdurre un corposo post di Eschaton, letto il quale mi sono, lì per lì, sentito una merda. Certo, capisco la raffinatezza del suo ragionamento, che non vuole essere semplice critica ma constatazione di un dato. Tutto vero, per carità. La nostra società occidentale dei consumi è impossibilitata a uscire da se stessa pena la sua scomparsa. Date le prospettive intorno (comunismo cinese-coreano-cubano, autoritarismo feroce alla Putin o alla Chavez o alla Gheddafi, teocrazie varie – anche se noi italiani stiamo sperimentando un bel paradosso democratico che speriamo presto si concluda) possiamo tranquillamente dire: lunga vita al capitalismo, al sistema liberal-democratico! Ma il capitalismo deve necessariamente essere, a volte, molto spesso anzi, così stronzo? Esistono versioni di mercato meno cannibali delle attuali? I ricconi sono emendabili? La grande messe economica che fa girare il sistema attuale – possibile sia necessariamente destinata a fottere il mondo così come lo conosciamo, abbastanza tranquillo per permetterci a tutti di vivere? C'è qualche speranza di perfezione? Forse sì, sentite Sylvie Coyaud («Noi donne siamo perfette, ovvio»). La terra di noi se ne frega, lo sappiamo: la natura è indifferente dacché qualsiasi cosa è natura. Anche questo pc sul quale scrivo per me è natura, per capirsi.
Sto perdendomi e allora vado, a quel post di Giulio Mozzi che mi ha costretto a quasi due giorni di pensiero fisso sulla sua domanda finale, che riporto:
«come hanno definito e ridefinito l’altro, le forze che oggi sono all’opposizione, in questi ultimi vent’anni?»
Due giorni di pensiero frammentario mi portano a questa timida risposta: l'altro non esiste dato che tutto intorno è altro. Anche il mio corpo. Io sono soltanto quella breve connessione cerebrale che mi fa percepire come estensione: vedere il mio corpo che si muove e cammina è già vedere l'altro.
Banalità: l'altro siamo noi, ma anche noi siamo altro. Tutto quanto intorno è altro. Altritudine. Mi tocco un braccio: è veramente mio? Dentro il mio corpo le cellule sono mie? Cosa sono esattamente? Estensione? Ma l'io è troppo piccolo per contenere alcunché. Se io sciolgo, solo per un attimo, l'io nell'estensione del corpo, o dei corpi, o del mondo, ecco che mi percepisco a mala pena come punto. E un punto è per definizione la cosa non estesa, senza superficie (sono molto euclideo). Per diventare figura, faccia, volto, l'io deve collegarsi ad altri punti. Io sono nulla, l'altro è tutto.
Basta. È bene che esca. Un po' d'aria fresca, lo specchio della luna sul lago, sigaretta, una giovine donna che porta il bianco cane a spasso. Ha un bel culo, non il cane. Sono i momenti in cui vorrei essere un personaggio di Philip Roth. Non lo sono.
Ecco ritornano i versi di Montale per ricordarmi che l'unica cosa che so è sapere ciò non sono, ciò che non voglio.
Un'assenza presente
venerdì 20 agosto 2010
Concentrato di blogger
Alba, risveglio, stanchezza, poca voglia di alzarsi. Primi pensieri del giorno, liberi, post-onirici. Ripeto: stanchezza e nessuna voglia di dirigerli, questi pensieri, verso un punto preciso. Essi, svincolati, spaziano intrecciando i miei vissuti con gli accadimenti pubblici. Sentire la propria mente in azione nella penombra mattutina, percepire come là dentro stiano lottando notizie, informazioni, dati, suggestioni, emozioni, idee quisquilie varie, tutte per conquistare il proprio spazio, tutte per sopravvivere. I memi sono in feroce competizione. Stamani ha vinto il pomodoro cinese.
Sono un po' di anni che, puntualmente, in pieno periodo di raccolta del pomodoro italiano, le agenzie informative diffondono la notizia dell'invasione del pomodoro cinese sulle tavole degli italiani. Cazzo di Budda (o del Tao o di Confucio o di Mao). Ora, io non sono un fine conoscitore, come Federica Sgaggio, dei meccanismi di redazione dei giornali che diffondono certe notizie, con certe modalità. Però, da modesto consumatore di notizie (e di pomodoro) alcuni problemi me li pongo. E sono questi.
Se i cinesi esportano il loro prodotto-pomodoro vuol dire che qualcuno glielo ha ordinato, no? Un giornalista serio, dunque, invece di ricevere così passivamente i comunicati di qualsivoglia agenzia di parte (in questo caso la Coldiretti) avrebbe il dovere di informarci su alcune cose fondamentali che non si riescono mai a sapere, noi poveri consumatori italiani esposti agli attacchi del feroce pomodoro cinese. Innanzitutto, occorre che il giornalista ci informi sulla qualità di tale prodotto: esso è a norma? È di qualità? Quali controlli subisce prima di essere “sdoganato”? Per dire: io per far entrare una finocchiona in Svizzera ho dovuto dichiararla alla frontiera; possibile che i doganieri italiani non facciano controlli certosini su tonnellate di prodotto alimentare cinese?
Dopo queste informazioni, il giornalista dovrebbe farci sapere chi sono gli acquirenti di tale enorme quantitativo di pomodoro cinese. Se nessuno è disposto a dirglielo, prende la sua automobile e seguirà (come un agente segreto) i tir che dal porto trasporteranno i barili in qualche posto d'Italia, in modo da far sapere chiaramente quale azienda italiana ha acquistato il prodotto; una volta scoperto l'acquirente, domandare a questi l'utilizzo che ne farà, come cioè lo smercerà e se lo farà indicando chiaramente la provenienza cinese del pomodoro. Se poi proprio volesse completare l'inchiesta da grande reporter, dovrebbe prender l'aereo e recarsi in Cina per scoprire di persona dove e come viene coltivato il pomodoro da quelle parti; vedere se le condizioni di lavoro dei raccoglitori sono paragonabili a quelle dei lavoratori stagionali che operano in Italia; scoprire se vengono usati fitofarmaci o pesticidi pericolosi; vedere come esso viene trasformato in concentrato.
Alla fine di tutta questa inchiesta, se non ci fossero rilievi particolari, ribadire ai consumatori italiani che i prodotti che mangiano e bevono di origine “straniera” sono anche altri; per esempio: semola di grano duro proveniente dall'America o dal Canada; caffè dal Sudamerica o dall'Africa; olio d'oliva dalla Grecia e dalla Spagna; nocciole dalla Turchia; e via discorrendo.
A margine.
Questo tipo di idee e argomenti sono propri del blogger. Il blogger è colui che si costringe a ragionare e a fermare i propri ragionamenti (sullo schermo) che altrimenti andrebbero via dalla sua mente come acqua nel lavandino. Un blogger è come un tappo, una diga. Speriamo che l'invaso-mente non trattenga troppa spazzatura.
Rues de Genève
Strade di Ginevra, primo pomeriggio estivo. Si cammina a casaccio cercando di ritrovare l'auto parcheggiata. D'improvviso, in delle vie assolutamente non periferiche, ci troviamo in mezzo a delle salopes. Con le figlie per mano, io e mia moglie camminiamo indifferenti, un po' imbarazzati, accanto a queste graziose signore e signorine che mettono bene in mostra la loro mercanzia (senza sconfinare nella nudità assoluta, beninteso), cercando di ignorare un simile (per me gradevole) spettacolo. Camilla, la maggiore, dieci anni tra poco, mi domanda: «Chi sono queste signore?». Io, imbarazzato, rispondo: «Sono, ehm, delle lavoratrici di “strada”». E lei: «Come sono svestite bene!».
giovedì 19 agosto 2010
Legalizzatela
Con la droga ho sempre avuto un rapporto di indifferenza. Per varie ragioni: la preoccupazione di ferire, adolescente, i genitori (un figlio drogato, che sciagura!); il preferire, per stordirsi, del vino o della birra; un certo timore (soprattutto per le droghe pesanti: acidi, oppiacei, coca); la mia naturale schizzinosità (il passarsi di bocca lo spinello tra più persone mi ha sempre fatto schifo: le due o tre volte che ho provato, dopo ho sputato l'anima); e last but not least il fatto che la droga sia illegale e che procurarsela sia sempre stato, per me, un mistero (sono un ingenuo, lo so). Comunque, non per moralismo o chissà che, basta poco per accorgersi che fare uso di stupefacenti significa dare i soldi alla criminalità organizzata. Ma questa semplice constatazione non è mai stata usata, per quel che ne sappia, come strumento di dissuasione all'uso di stupefacenti, nel senso che le campagne contro la droga sono sempre rivolte alla sua pericolosità per l'individuo. Ora, non volendo certamente mettere in secondo piano questo aspetto, io – fossi chiamato a redigere una pubblicità progresso – farei notare ai consumatori di stupefacenti che stanno dando soldi al narcotraffico e che, purtroppo, anche un tiro da un innocente spinello, dà forza, energia e potere a chi compie simili massacri.
Per questa ragione sono per la liberalizzazione delle droghe, di qualsiasi tipo.
Il mio unico timore è pensare a cosa farebbero i narcotrafficanti una volta che venisse loro sottratta la miniera d'oro (ma questa è una "vecchia" idea di Umberto Eco).
mercoledì 18 agosto 2010
Lotta d'identità
I miei bisnonni, lato paterno, erano veneti (Bassano) "emigrati" in Toscana per lavoro tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 (erano dipendenti della "defunta" Società Veneta ferrovie), anche se i «Massaro sono presenti a macchia di leopardo in tutt'Italia, si individuano ceppi nel ragusano, nelle Puglie, nel napoletano, nel palermitano, nel centro Italia, in Piemonte, Lombardia, Emilia e [appunto] nel Veneto»[*]. Nelle mie “vene” dunque scorre una minima dose di sangue “veneto”, simile a una particella di sodio nell'acqua del Lete. Sicuramente questo non sarà sufficiente al Presidente della regione Veneto, Luca Zaia [il Ri-governatore], per riconoscermi, per identificarmi, come parte del popolo e del suo territorio. Ma aldilà delle facili ironie contro questo modo di fare politica con la clava e il filo spinato, mi domando: se i cittadini “veneti”, “lombardi”, “piemontesi”, “liguri”, “emiliani”, “romagnoli”, padani tout court che sono contrari al leghismo e al tribalismo, dovessero protestare a voce alta e far bau bau ricevendo costante attenzione mediatica (ma da chi?) e si ritrovassero in una specie di Pontida alternativa per far numero, contarsi, mostrarsi - sarebbero abbastanza sufficienti da formare una massa critica che dica in modo forte e chiaro al cosiddetto popolo leghista “avete rotto il cazzo”?
Penso a questo mettendo in relazione questo post di Giulio Mozzi e L'amaca di Michele Serra del 14 agosto scorso, che riporto:
«Quello che ci si chiede, di fronte al sempre più minaccioso localismo leghista, è come e quando ci sarà la rivolta degli italiani che lo vivono come un'offesa, una violazione identitaria (a furia di blaterare di "identità", perfino noi italiani ci stiamo accorgendo di averne una). "Padroni a casa nostra", come dice la Lega, noi italiani del Nord non lo siamo più da un pezzo, e non lo siamo per colpa di Bossi, non di Roma. Non lo sono, padroni a casa loro, quei veneti che si sentono italiani prima che veneti, i milanesi di casa in Europa che non capiscono perché il loro futuro dovrebbe dipendere da Varese o da Pontedilegno, i piemontesi che, con tutto il rispetto per Cuneo, guardano alla Francia e si sentono nipoti di Cavour e non parenti di Cota. Ne abbiamo le tasche piene e siamo in tanti, siamo stufi di subire le prepotenze e le mattane di una minoranza che si è auto-nominata "Padania" e parla a nome di tutto il Nord senza averne alcun diritto. A partire dal primo gennaio 2011, anno del centocinquantenario, mi metterò addosso ogni giorno, per 365 giorni, qualcosa di tricolore (un distintivo, una fascetta, una coccarda come fa Paolo Rumiz nel suo bel viaggio "garibaldino"). Più che per polemica, per dignità. Anzi: per identità».
Tre "studenti" canaglie
Meriggiare pallido e assorto E andando nel sole che abbaglia | Nel sole immergersi pensoso, [versione di Luigi Castaldi] |