«Comunque, ho fatto le valigie, ho avvisato la sua cameriera che mi sarei installato qui, e sono salito nell'ascensore. Proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto. Non gliene avevo mai detto niente, non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato quando ero solo, tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o facciamo accadere) nell'assoluta intimità. Non mi rimproveri per questo, Andrée, non mi rimproveri. Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Non è una buona ragione per non vivere in una qualsiasi casa, non è una buona ragione perché uno debba vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere.
Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un'effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico, avviene in un brevissimo istante. Estraggo le dita dalla bocca, e fra di esse stringo per le orecchie un coniglietto bianco. Il coniglietto sembra contento, è un coniglietto normale e perfetto, soltanto molto piccolo, piccolo come un coniglietto di cioccolato ma bianco e in tutto e per tutto un coniglietto. Lo poso sul palmo della mano, gli sollevo il pelo con una carezza delle dita, il coniglietto sembra soddisfatto di essere nato e freme e frega il musetto contro la mia pelle, muovendolo con quella triturazione silenziosa e solleticante del musetto di un coniglio contro la pelle di una mano. Cerca di mangiare e allora io [...] lo porto con me sul balcone e lo poso nel grande vaso dove cresce il trifoglio che ho seminato apposta. Il coniglietto rizza del tutto le orecchie, avvolge un trifoglio tenero in un veloce mulinello del musetto, e io so che posso lasciarlo e andarmene, continuare per un po' di tempo una vita non dissimile da quella dei tanti che comperano i loro conigli nelle fattorie».
Julio Cortàzar, Lettera a una signorina a Parigi, da Bestiario, Einaudi, Torino 1965 (traduzione Flaviarosa Nicoletti Rossini).
a W.W.
«A un dato momento durante il mio nono anno di età evidentemente uno dei miei testicoli decise che s'era stufato di vivere laggiù nello scroto e cominciò a muoversi lentamente verso nord. all'inizio lo sentivo ciondolare con incertezza proprio al bordo della pelvi – e poi, come se il suo momento d'indecisione fosse passato, lo sentii entra nella cavità del mio corpo, come un sopravvissuto che venisse di peso tirato su dal mare e issato nello scafo di una scialuppa di salvataggio. E là si accoccolò, trovando rifugio, sicuro, infine, dietro la fortezza delle mie ossa, lasciando il suo temerario compagno a cavarsela da solo in quel mondo di ragazzo fatto di bulloni di scarpe da football e di staccionate appuntite, di canne, di pietre e coltelli tascabili, tutti quei pericoli che facevano impazzire mia madre di presentimenti orribili, e contro i quali io venivo messo in guardia, in guardia, in guardia. E di nuovo in guardia. E di nuovo.
E di nuovo.
Sicché il mio testicolo sinistro stabilì la sua residenza nella vicinanze del canale inguinale. Premendo un dito nella piega fra il mio apparato genitale e la coscia, potevo ancora, nelle prime settimane della sua scomparsa, sentire la curva della sua rotondità rappresa; ma poi sopraggiunsero nottate di terrore, quando cercavo in tutte le mie viscere invano, cercavo su su fino alla gabbia toracica – oh me infelice, il viaggiatore s'era avventurato in regioni ignote, di cui non si conosceva la mappa. Ma dov'era andato, insomma? Quanto sarebbe salito, quanto si sarebbe allontanato prima che il suo viaggio fosse giunto a compimento?! Sarebbe forse accaduto che un giorno, in classe, avrei aperto la bocca per parlare e mi sarei improvvisamente accorto che la mia palla sinistra mi era finita sulla punta della lingua? A scuola cantavamo, insieme alla maestra, Io sono il Capitano del mio destino, il Padrone della mia anima, e nel frattempo, all'interno del mio stesso corpo, uno dei miei soldati semplici aveva scatenato un'insurrezione anarchica – e io non avevo il potere di sedarla!».
Philip Roth, Lamento di Portnoy, Bompiani, Milano 1970 (traduzione di Letizia Ciotti Miller).
P.S. Le traduttrice dei brani riportati hanno tutt'e due un cognome doppio.
P.S. 2. Non capisco perché Blogger impedisce la "mia" scelta di tipi varî di carattere di scrittura. Così come non riporta il color blu scuro d'uno dei brani.
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