giovedì 14 luglio 2011

Farfalle e scarafaggi


«La poesia sembra perpetuamente in crisi, eppure senza meravigliare nessuno, riesce sempre a sopravvivere. Forse perché sono un poeta, credo che la poesia – a differenza della narrativa, che immagina il nostro comportamento umano nel quadro di un contesto sociale – ci offra una prospettiva sui nostri sentimenti o, per la precisione, su come ce li rappresentiamo. In altre parole, la poesia, al contrario della narrativa, procede dall'interno all'esterno, esteriorizza la nostra interiorità.» Mark Strand, "Ritrovarsi sull'isola dei poeti".
Alcuni lettori interessati di passata all'argomento ci avranno fatto caso: ogni tanto, puntualmente, soprattutto nel periodo estivo, sulle pagine culturali dei quotidiani trova spazio e attenzione la poesia. La morte o la rinascita della poesia; l'utilità o l'inutilità della poesia; la centralità o la marginalità della poesia; l'incomprensibilità o la noiosità della poesia; il rinnovato interesse verso la poesia oppure l'inesorabile declino della poesia.
Complice Dante e sotto la sua ombra (Petrarca ancora non scalda altrettanto bene il pubblico) si riempiono le piazze di persone ad ascoltare recital poetici che mescolano terzine, ottavine e versi sciolti – come la diarrea.
Dato che ogni tanto, sporadicamente, anche a me scappano versi, mi permetto di dire alcune cose non perché sulla carta d'identità, alla voce “professione” ho scritto: poeta (preferirei ci fosse scritto blogger ma questo è un altro discorso: appena mi scade, andrò all'anagrafe a proporre questa dicitura), ma perché mi sembra che tutti coloro che hanno voce in capitolo non colgono un punto fondamentale della questione poesia.
Perché la poesia non conta più un cazzo da un punto di vista politico e sociale ed è confinata in un intimismo scialbo e masturbatorio? Vediamo.
Facciamo subito un nome, contrariamente a Berardinelli che non fa nomi: chiamo all'appello Andrea Zanzotto, uno dei sommi poeti del Novecento. E chiediamo (con rincrescimento): esiste un solo verso dell'intero opus zanzottiano che si sia incrostato, come meme indelebile, nei cervelli di un'ampia cerchia di lettori, devoti o no di tale poesia, i quali, poi, per riflesso, lo abbiano fischiettato – o meglio – cantato in pubblico contagiando così altri cervelli, altri parlanti-cantanti, altre immaginazioni? Resta più in mente:
Dammi tre parole: sole, cuore e amore
oppure
E laggiù, tra i meli, stralunati presagi di sera
?
Lo so: canzoni (o canzonette) e poesie sono cose diverse... ma mica tanto. Se la poesia non producesse suono attraverso il ritmo del verso sarebbe cosa muta, priva di senso e significato. Così come la canzone, se non avesse dentro lo spartito la parola, non sarebbe altro che un misero giro di accordi anch'esso privo di significanza.
Ma è la musica a veicolare, a diffondere massivamente i versi, non c'è niente da fare. E da quando la musica leggera ha invaso letteralmente i media dal dopoguerra in poi, per la poesia non c'è stata più partita.
Attenzione: io non do giudizi di valore. Dentro certe canzoni ci sono versi, ci sono parole che sono – di fatto – poesia. Ma non si può negare l'evidenza che, se a ricordare La casa dei doganieri saremo in mille in tutta Italia (spero di più), a ricordare invece questi versi (mi vengono “in mente” – eh, eh – questi ora a caso ma ce ne potrebbero essere centinaia di altri) siamo in milioni:

Bella di una sua bellezza acerba
bionda senza averne l'aria
quasi triste come i fiori e l'erba
di scarpata ferroviaria

Avrete riconosciuto tutti Autogrill. Ok, adesso vi chiedo uno sforzo immane: provate a immaginare tali versi privi di musica, facendo finta di averli letti ora. Ammesso che vi piacciano, quanto vi resteranno in testa? Cinque minuti? Dieci? Un giorno o tutta la vita (Alzheimer permettendo)? Senza la (filo)diffusione nell'etereo etere, senza la ripetizione (volontaria o non), la poesia non ha scampo. A parte i classici che, grazie ai loro imperituri componimenti, godono giustamente della diffusione scolastica italiana e, quindi, della riproduzione nelle Antologie. Ma dopo e oltre i classici il canone è morto (tranne quello della Rai) perché – diciamo così all'ingrosso – dal dopoguerra in poi e, soprattutto, nei paesi democratici, la poesia si è andata non dico estinguendo, ma emarginando totalmente dal pubblico dibattito. Non ha più avuto importanza perché non è stata più capace di spaventare il potere, perché l'autorità democratica non esiliava più nessun poeta. E un poeta che non è in esilio non è più nessuno: non ha potere politico! Chi non ha accesso al credito pubblicitario, alla diffusione mediatica è di fatto privato di qualsiasi possibilità di influire sui cervelli della gente. Cosa conta se poche centinaia di individui si ostinano a mandare a mente i versi di Zanzotto o Sanguineti, di Raboni o Giudici, di Scialoja o di Erba, di Porta o di Pagliarani, e pochi altri eccetera? Può Zanzotto aiutare a far vendere un biscotto? Altro elemento importante: la poesia non è adatta a veicolare messaggi pubblicatari. Sì, ogni tanto qualche creativo usa impropriamente versi per vendere prodotti e magari indovina la campagna pubblicitaria. Ma sono casi rari. E proprio perché la poesia è avversa a ogni forma di pubblicità che non può diventare fenomeno commerciale.
Ma a parte queste ragioni da bottegai, quello che è decisivo nella poesia oggi, rispetto al valore che essa aveva per i pochi lettori del tempo che fu (non scordiamoci, infatti, che a leggere una volta era una piccola percentuale della popolazione) è che non riesce a diventare inno, verso tormentone dell'estate, caso letterario dell'anno, gingle, eccetera.
La poesia – e va da sé che qui si parla della poesia vera o presunta tale non dei versucoli autoprodotti su ilmiolibropunto.it – è come una farfalla che dura lo spazio di una lettura e che solo alcuni incerti entomologi, dopo, sono in grado o hanno voglia di catturare e infilzare con una spilla nella loro collezione di pensiero. La poesia è variazione infinita dell'io («che perennemente poi torna tessendo infinite autoconciliazioni»Zanzotto), come le farfalle, appunto – o come gli scarafaggi: circa trecentomila specie diverse di scarafaggi che pongono al presunto Creatore una domanda: cui bono?
Così la poesia, farfalla o scarafaggio che sia, continua a volare nella mente degli umani incerta e senza una meta precisa, «al vento, al caso, col favore di una musa di un ordegno ritorna lieta o triste» (Montale) qui davanti a noi, timidi e incerti esploratori che nella rete divaghiamo per diffondere il nostro piccolo io.

A parte.
Berardinelli veramente penoso oggi sul Corsera. Vorrei poterci parlare. Ha scritto un articolo veramente penoso. Basta. Chi lo conosce bene e gli è amico glielo dica: Alfonso falla finita di parlare a caso: piglia un libro, criticalo bene o male, ma parla di quello e stop. Uffa.

Una prova? Leggiamo l'attacco del suo articolo d'oggi:
«Qualche mese fa, discutendo con due giovani poeti particolarmente intelligenti e colti, Carlo Carabba e Matteo Marchesini, abbiamo concluso che oggi (e da tempo) la poesia italiana è prevalentemente divisa in due tipi: c'è quella incomprensibile e c'è quella noiosa, perché manca, da parte degli autori, la passione di essere letti».
Primo: io non discuto che Carabba e Marchesini siano poeti intelligenti e colti: può essere anzi sicuramente lo sono. Ma chi sono? Due foglianti? Almeno il secondo sì: ah ecco, capisco... Comunque, perché, visto che sono i soli due poeti contemporanei che egli cita, non parla - anche solo per specificare la loro intelligenza - della loro produzione poetica?
Secondo: nell'operare tale bipartizione della poesia, Berardinelli non cita di proposito alcun esempio di poeta, più o meno famoso o riconosciuto, che rientri in una delle due categorie: perché? Timore di offendere qualcuno? E che cazzo! lasci immaginare a me, povero lettore, chi siano questi poeti? Se tu fossi coraggioso, io potrei andare a cercarmeli e leggermeli ed eventualmente concordare con te.
Infine: perché non ti confronti, caro Berardinelli, con quanto per es. Strand scrive nel suo bellissimo articolo pubblicato meritoriamente sulla Domenica del Sole? E dicci: l'io poetico non interessa più a nessuno perché ci sono troppi io nel mondo che vogliono far sentire la lor voce, ognuno a spingersi nella calca per mostrare la propria testolina, per far vedere che esiste ed è pronto ad entrare nella casa del grande citrullo. Ecco la verità: c'è un'inflazione di io che come l'euro perdono, giorno dopo giorno, il lor potere d'acquisto. Prevalgono solo e sempre gli io testedicazzo, a cominciar da coloro che ci governano e ci controllano e tu non dici niente, caro Alfonso, visto che ci scrivi e vorrei, ripeto, vorrei ci fosse per un attimo Fortini qui con noi per darti un morso benefico in un orecchio per dirti, awake! awake! lascia quel pugno di soldi berlusconiani che ricevi e scappa!

5 commenti:

pes ha detto...

Sono lenta nell'elaborazione del pensiero, ho bisogno di leggere e rileggere, a meno che non venga una improvvisa accelerazione viscerale.Questo per dire che chiedere un commento a me è come chiederlo alla tartaruga della storia infinita o alla lumaca di Pinocchio. Alcune considerazioni sparse, quindi, legate più alle esperienze personali che ad altro. Io leggo poesia, ma - come del resto anche il buon Francesco ebbe a dire qualche annetto fa- di buoni poeti se ne trovano raramente. Ed è vero. Però ci sono e anche negli ultimi tempi. Per cui ne ho lette di buone poesie e ogni tanto, quando ne ho bisogno, li rileggo. Oggi sentivo alla radio su Fahrenheit, Loredana Lalipperini che discuteva di questo, e uno dei suoi interlocutori ha detto- la cosa mi ha colpito- che la poesia non deve essere di moda, perché se fosse di moda non sarebbe più quello che é. Lì per lì la cosa mi ha colpito positivamente. Poi ho pensato che è una concezione elitaria della letteratura. Ora penso che è entrambe le cose e penso che perché la letteratura, tutta la letteratura, deve essere subito di tutti. Se leggi, come certo hai fatto, gli articoli degli altri che sono intervenuti nella discussione- a parte quello di Berardinelli- che sembra sempre sul Corriere che faccia pubblicità occulta- vedrai che si parla anche di questo, di come ci sia e ci debba essere una differenza tra la cultura televisiva e quella poetica e anche - magari- della prosa. Perché è così e non c'è niente da fare: chi legge poesia non è quello che guarda biutiful o meglio forse sì, ma il viceversa non vale. Senza voler essere per questo spocchiosi.
Quanto al resto: ma chi è bella di una bellezza acerba bionda, che io non l'ho mai sentita?
Scusa la disconnessione delle frasi :)

Luca Massaro ha detto...

grazie Pes del tuo commento...
ho scritto il post un po' arrabbiato con Berardinelli che sempre se la tira sul fatto che lui sarebbe uno di quelli che sanno chi sono i poeti veri e giusti... e poi, nel caso di oggi, non lo dice...
I versi sono presi da Autogrill di Guccini... adesso lo linko...
Un caro saluto.

sirio59.mm ha detto...

Luca, quando t'incazzi sei poetico, lo sai? :-)

Concordo ampiamente.
Morena

Marco Fulvio Barozzi ha detto...

Ne parlavo proprio ieri sera con la Russomanno e Tafazzi, a cena da Lisergi. La poesia, nata come canzone, dalla canzone è stata seppellita, perchè ha perso il ritmo, che aiuta la memoria. Si scrive con in mente solo la vista del lettore, non il suo orecchio. Forse perchè molti poeti davvero sono troppo impegnati a guardarsi l'ombelico o, ancor più, solo le cicatrici dell'appendicectomia. Tafazzi, con ragione, mi diceva di diffidare dall'abuso di "struggimento" o "straniamento", io mi sono limitato a declamare questo limerick:
"Alla serata culturale del giorno ventuno
forse il tempo, non c'era nessuno.
L'invito alla conferenza
su poesia e sofferenza
diceva di presentarsi a digiuno".

Luca Massaro ha detto...

caro Popinga, invidio con struggimento la vostra cena... quanto mi sarebbe piaciuto con voi conversare e ascoltare in diretta i vostri (i tuoi) limerick!