venerdì 29 luglio 2011

Polmoni d'acciao


«L'ultima volta che lo vidi, – disse Neary, – faceva economia per potersi comprare un polmone d'acciaio, il giorno che fosse stanco di respirare».
Samuel Beckett, Murphy, Einaudi, Torino 1962 (traduzione di Franco Quadri).

È così. Lui non ha fatto economia, il mio amico intendo. Se li è spesi tutti, i soldi, fino all'ultimo centesimo. D'accordo, alle Poste deve ancora ritirare la paga della minima di questo mese; ma era già ricoverato all'ospedale e non ha potuto, non ha nessuno cui dare la delega. Ricoverato, già: la cannula che l'aiutava a respirare non era più sufficiente, frequenti attacchi respiratori lo colpivano durante la giornata, soprattutto nelle ore più calde. Per questo gravitava ormai sempre nei dintorni dell'ospedale. «Non posso spostarmi», mi diceva sconsolato; e sì che sarebbe andato volentieri a prendere una boccata d'aria lontano dalla città.
Adesso è lì, disteso, bello pulito, con la pelle fresca, il volto sbarbato e i baffi come un attore francese che ora non ricordo il nome.
«Dorme», mi dicono le infermiere «non è propriamente in coma». Dorme da dieci giorni, qui, in terapia intensiva, con i tubi del macchinario che l'aiuta a respirare. È sedato leggermente, ma non patisce. Ci sono dei parametri che vedono se un paziente soffre o meno. «E poi stamani», mi dice l'infermiera, «facendogli un prelievo in un'arteria ha fatto una smorfia di dolore».
Dicono i medici che ha subito anche un parziale danneggiamento cerebrale, che hanno riscontrato con un elettroencefalogramma. Pare sia stata decisiva in tal senso l'ultima crisi, quella che l'ha condotto qui, poco prima di essere attaccato a questo polmone d'acciaio.
«Il cancro avanza qui sul petto» mi indica il medico che gli tiene il polso, e le speranze sono minime. «Quante, all'incirca?», chiedo così per rompere il silenzio dopo quella sentenza. «Beh, in questi casi, non si può mai dire esattamente, ma non più di una su diecimila».
E perché dovresti essere te il "fortunato", amico mio senza fissa dimora da vent'anni, pensionato con la minima da quasi due, che dormivi sulle sedie della sala d'aspetto della stazione e che quando la città era rovente o diaccia ti rifugiavi nell'aria “confezionata” o “riscaldata” del Circolo di quartiere?
«Ah, porcamadonna la Fiorentina ha perso».
«Ma guarda, Ciccio, a me non importa più una sega del calcio».
«Fai un salto al Saltino; va' a mangiare ceci alle Sieci; Sesto, Peretola e Campi la peggio genìa che Cristaccio stampi» e vieni via di qui, caro A., ma non troppo che tu puzzi, da quanto tempo è che non ti lavi, ma monta in macchina lo stesso che domani andremo alla sagra del cocomero in Valdichiana in Valtiberina in Valdarno in Valfanculo, si trovano i bagni diurni e si va a fare una bella doccia – anche se, beninteso, ci porterei più volentieri quella bionda.
«Quale bionda?»
«Quella, non la vedi, giù coi piedi a mollo in Arno?».
«Oh, bionda! Quanto l'è fonda?», e lei: «Mezzo braccio, bischeraccio».
Tutto qui.

Ma adesso almeno, caro A., sei nelle mani di qualcuno, hai sott'al culo un materasso comodo antidecubito e soprattutto puoi dormire, tanto, e avere sonno quanto ti pare e, forse, puoi sognare qualcosa che ti stia facendo ridere e stare bene.
Vai avanti ancora quanto più ne hai voglia. Stai meglio ora che in quell'albergo dove in due giorni ti sputtanavi la pensione per recuperare il sonno arretrato.
Ecco che cos'è dottore questo stato di dormiveglia; mi dia retta, le macchine non conoscono la situazione e non lo possono scoprire: il suo è sonno arretrato, sonno di vent'anni, di voglia di un letto comodo e pulito, di un posto caldo e confortevole, di mani care che si posano addosso su una pelle triste.
Signora infermiera la saluto. È stata molto gentile. Questo è il mio numero, nel caso... Posso chiamare di tanto in tanto? Lo so, la privacy impone che per telefono non si possano dare notizie. Ok, tornerò. Tornerò a vederti dormire, caro A. Non ho voglia di seppellirti ancora.
Ciao, alla prossima. Intanto se ce la fai conta le pecore. Quante? Diecimila.

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