«Il
compagno Ossipon, di soprannome il Dottore, uscì dalla birreria del
Silenus. Giunto alla porta esitò, strizzando gli occhi come davanti
a un sole non troppo splendido – e il giornale in cui si riferiva
il suicidio d'una signora era nel suo taschino. Il cuore gli batteva
contro quel giornale. Il suicidio d'una signora – quest'atto di
follia, o di rassegnazione.
«S'inoltrò
nella strada, senza guardare dove metteva i piedi: s'inoltrò nella
direzione contraria a quella che doveva condurlo al luogo
d'appuntamento con un'altra signora (una bambinaia vecchiotta, che
riponeva tutta la sua fiducia in quella testa apollinea profumata
d'ambrosia). Fuggiva lontano da quel luogo. Non era più capace di
trovarsi faccia a faccia con una donna. E ciò voleva dire la sua
rovina. Non gli riusciva più di pensare né di lavorare; non poteva
mangiare né dormire. Soltanto, aveva cominciato a bere con gusto
anticipato dal piacere della speranza. Era la rovina. La sua carriera
rivoluzionaria, sostenuta dal sentimento e dalla fiducia di molte
donne, veniva minacciata da un mistero impenetrabile – il mistero
del cervello umano che pulsava con ritmo regolare, il ritmo del
frasario giornalistico: “Quest'atto di follia, o di
disperazione...”. Ora il
cervello pendeva verso il rigagnolo della strada. “Sembra
destinato per sempre...”.»
Joseph
Conrad, L'agente segreto, (1920),
Bompiani, Milano 1953, traduzione di Carlo Emilio Gadda.
Anch'io,
oggi pomeriggio, sono
uscito dal lavoro «strizzando
gli occhi come davanti a un sole non troppo splendido».
L'afa intorno pareva
una conseguenza dei deboli rovesci di pioggia sabbiosa del mattino.
C'erano una sacco di donne, come sempre d'altronde, inutile spiegare
perché. Sono atti che si ripetono, come i sorrisi – e i sorrisi
fanno bene, se non sono falsi (ma ho, non so come, esercitato la
facoltà di riconoscerli se tali).
Non
sono così sicuro di esser padrone della mia vita. Fino a che punto,
almeno. Cosa m'impedisce di spingere l'essere fuori dell'anomia,
forse la misera presunzione di
avere già un nome (un essere) che è
riconosciuto? Sì, puttana miseria, sì.
Ché
domino paure e insicurezze,
desideri e frammentazioni? Boh.
Sono quello che sono, un
numero compreso tra zero e uno,
quest'ultimo inteso
come l'intero. In
pratica c'è questa vita
sospesa e non so
sospesa da cosa e verso che, la morte sicuramente. Bisogna
pensarci alla morte – dico,
per darmi un tono – ma
perché devo pensarci ora non lo so, e infatti non ci penso, ma fa
tanto
Montaigne pensare alla morte con quella sorta di distacco e
d'intelligenza da
intellettuale di provincia antimondano (ma non troppo).
Sono
nato in Italia ed era meglio di
no. Avrei preferito la
Francia, sarebbe stato più
salutare avere
una mamma francese che mi buttava fuori di casa al momento giusto e
mi faceva vedere che cosa vuol dire veramente amare, anziché
battibeccare con le proprie tribolazioni (non è un'accusa a mia
madre, no; è al padre di cui
sono dimostrazione e stop; e
non è un'accusa a tutte
le madri italiane, non amo generalizzare, specifico: un
certo tipo di madre italiana);
una mamma che mi allontanasse
da sé quanto necessario e non giocasse
a nascondino coi sensi di colpa del
figlio che – cazzo, me lo ricordo come fosse ora – alle
elementari, durante l'ora di religione, domandò
al prete (i preti facevano religione nelle classi e non certo gli
insegnanti di religione laici designati dalla curia e pagati dallo
Stato) cosa ci aspettasse in paradiso, e il
prete gli
controdomandò cosa lui
si
aspettasse
e il figlio
rispose
che avrebbe voluto
ritrovare sua
madre in paradiso,
supponendola dunque morta un giorno. Non ricordo cosa
rispose il prete, non ha importanza, al paradiso non ci penso più, è
assurdo, mia madre è anziana e sta piuttosto bene, nonostante che la
sua sinistra sia ora costretta (?) a governare con Berlusconi,
porcoddio bambino porcodddio.
Bambino.
Ho un anno meno di Letta e mi chiama ancora bambino. Ma anche bischero - e questo mi consola.