domenica 29 gennaio 2017

Il messo (21)


«Siamo sicuri che essere felici sia un obiettivo che valga veramente la pena di perseguire?», lesse Federico.
«Me lo chiedo perché ho come la strana sensazione che, una volta che lo fossimo, un istante dopo, non lo saremmo più, perché quello ci prefiguriamo adesso per essere felici, non sarà, non potrà essere – anche se realizzato – una certezza di felicità. Innanzitutto perché dovremmo essere assolutamente sicuri che quello che pensiamo adesso possa renderci felici appartenga realmente a noi, sia frutto dei nostri desideri più autentici… e mi qui mi fermo, perché nessuno – ribadisco nessuno al mondo ha o può avere desideri che siano esclusivamente suoi, che non siano frutto di una mediazione o di un condizionamento. Credere il contrario è mera illusione, giacché riguardo ai desideri, non esiste tabula rasa, non nascono in noi e con noi, ma entrano in noi tramite contagio. Sono gli altri, i nostri modelli – manifesti o sotterranei che siano – che ce li trasmettono, in forma più o meno diretta. Nasciamo, cresciamo e – se non abbiamo una vita grama, fatta di stenti, sudore per soddisfare le necessità minime del vivere o per difendersi da genitori o adulti aguzzini – ci guardiamo intorno per capire quali sono i desideri da imitare per essere come gli altri o differenziarsi dagli altri, comunque sia sono gli altri il termometro di giudizio per misurare la nostra febbre del desiderio. È chiaro che, in questi termini, una volta soddisfatti ci accorgiamo che i desideri non ci appartengono, non erano nostri, non lo sono mai stati, mai; per questo quasi sempre la risultanza è un post coitum ininterrotto, che ci lascia o amareggiati o disincantati, con in mano quello che volevamo, sì, ma quanta fatica per niente, se ci fosse almeno un mercatino del desiderio usato per poterli rivendere, ripiazzare indietro...
Beh, penso che ammettere questo sia già molto, ma preclude necessariamente ogni forma di felicità prefabbricata da una immaginazione presa in prestito sui cataloghi delle vite altrui. E allora niente, non so dire che cosa vorrei esattamente per essere felice; quello che mi auguro sono soltanto certi momenti di felicità improvvisa, inaspettata, rapida, non durevole, che arrivano addosso come il sorriso di una donna che cammina al tuo fianco lungo un fiume che sembra fermo, come il tempo che sembra fermarsi in quel preciso istante, ma fermo non è. Solo un secondo dopo, infatti, ti accorgi che sei stato felice ma non puoi neanche dirlo, perché è tardi, quell'istante è passato, ecco, puoi soltanto ricordarlo.
Insomma, penso che felici, ma felici veramente, possano esserlo soltanto i saggi o gli idioti, non c’è via di mezzo per quelli che, come noi, credo, e scusatemi se vi raggruppo, siamo attraversati ogni giorno dai fasci dei desideri altrui, dai feticci standardizzati della produzione e del consumo, dalle immagini di contorno, dalle risate viete e muffite della pubblicità. Noi che siamo qui per capire il perché della nostra vita, se essa abbia un senso, beh, penso che conviene arrenderci, alzare le mani, issare bandiera bianca. Non saremo felici, ma non facciamone un cruccio, non importa. Si può soltanto giocare in difesa, parare i colpi dell’oltraggiosa fortuna, per quanto sta in noi, è chiaro, e camminare lungo i fiumi, in attesa che ripassi quel sorriso, perché prima o poi ripassa, deve, foss’anche solo uno che riappare coi ricordi».

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