domenica 8 gennaio 2017

Un lungo processo di lotta

Se si potesse (o dovesse?) misurare l'inutilità politica dei partiti e dei movimenti di sinistra faccia alla globalizzazione, un indicatore da prendere necessariamente in considerazione è quello relativo al tema della riduzione dell'orario di lavoro. Cavallo di battaglia della sinistra europea, esso conobbe in Francia, nei primi anni del Duemila, il suo più alto (!) punto d'arrivo con la legge sulle 35 ore di lavoro settimanale (e anche in Germania, in certe fabbriche tipo la Volkswagen se non erro, fu applicata una riduzione dell'orario di lavoro, a parità di salario, con plauso della classe lavoratrice). Anche in Italia, i rifondaroli comunisti bertinottiani e vendoliani (ma non son sicuro su quest'ultimi) cavalcarono tale ipotesi riformista, senza alcun successo.

Clamoroso è tuttavia vedere come in pochi anni questa proposta sia diventata politicamente lettera morta - addirittura se qualcuno ne parla, gli danno del provocatore o del pazzo - ed è stata oramai sostituita dalla peregrina ipotesi di introdurre, per i disoccupati, il reddito di cittadinanza, vera e propria elemosina di Stato o reddito di sopravvivenza (basica).

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«L’esperimento dell’orario di lavoro ridotto a sei ore quotidiane era stato introdotto dal comune di Göteborg per i dipendenti (in maggioranza donne) dell’ospizio di Svartedalen. Ha funzionato in un senso: perché i dipendenti con l’orario di lavoro ridotto hanno poi lavorato meglio essendo più riposati. Ma per compensare le ore in meno, è stato necessario assumere 17 persone in più, al costo di 12 milioni di corone, cioè circa 1,3 milioni di euro.»
Già dal tono sogghignante del corrispondente di Repubblica si capisce che ben gli sta agli svedesi, senza però che nulla si dica sul fatto che gli statali nostrali da sempre fanno sei ore al giorno. E meno male. «Ha funzionato in un senso [...] i dipendenti con l'orario ridotto hanno poi lavorato meglio». O bravo: era quello lo scopo cara la mia testina. Uno scopo prettamente umano e quindi onorevole. Se i göteborghiani hanno rinunciato è perché, contrariamente agli italiani, si son detti: mancando li sordi, o si aumentano le tasse o si aumenta il debito pubblico. Sai che? Si torna indietro e amen.
Ma la testina corrispondente dalla Svezia in trasferta dalla Germania (il famoso Tarquini, di Tarquinia), mica fa differenza tra un lavoro pubblico e un lavoro privato, tra quei settori produttivi in cui il lavoro è l'imprescindibile fonte di valore del capitale, e quei lavori pubblici che non sono giocoforza produttivi ma che servono alla società perché qualcuno ci dovrà pur lavorare all'ospizio, o no? Oppure i vecchi si ammazzano da bambini?
Tuttavia, credo inconsapevolmente, il Tarquini aggiunge una cosa di formidabile valore politico, che una qualsivoglia forza politica cosiddetta di sinistra dovrebbe cogliere al volo per metterla al primo posto della propria agenda politica. Cioè a dire, udite udite, «per compensare le ore in meno, è stato necessario assumere 17 persone in più». Bum. Eureka. Altro che job act e voucher del cazzo. Lavorare meno e, a parità di salario, lavorare tutti.
Va da sé che tale proposta non ha più senso e valore se viene dispiegata soltanto in una nazione. Ma se diventasse una direttiva da rispettare in una macro aerea, per esempio l'Europa? Insomma, se tutte le forze della Sinistra europea unite si impegnassero nella battaglia della riduzione sistematica dell'orario di lavoro, potrebbe questo portare buoni frutti alla tavola europea e non solo, tenendo conto della forza di ricatto europea per imporre dazi a tutte quelle merci prodotte con un chiaro sfruttamento della forza lavoro oltre il limite insindacabile delle 35 ore settimanali (considerazioni utopistiche, ok, chiedo venia: la Cina, il Bangladesh et similia continueranno a fare un po' come cazzo gli pare).

Tutto ’sto pippone, che sta per concludersi, ha preso spunto da un ennesimo post chiarificatore di Olympe de Gouges sulla questione comunismo e rivoluzione. In particolare, da una noterella finale, questa
«Solo degli sciocchi o gente in malafede può mettersi a discutere su chi cucinerà il pranzo o svolgerà il lavoro di badante in una società comunista. Anche perché la nuova società non è qui dietro l’angolo, non è cosa che si cala dall’alto, che si compie d’un solo passo, ma è necessariamente un lungo processo di lotta, di scontro, di tentativi, di successi e d’inevitabili fallimenti.»
Ecco, per concludere, penso che lottare per una riduzione universale dell'orario di lavoro sia uno sforzo politico che valga la pena compiere, tenendo in debito conto che è solo un passo, fors'anche due.

1 commento:

Marino Voglio ha detto...

"Solo degli sciocchi o gente in malafede può mettersi a discutere su chi cucinerà il pranzo o svolgerà il lavoro di badante in una società comunista."

eliminiamo subito quelli che a seconda del contesto sanno osservare leggiadri/e "nec ultra crepidam"; direi che non è aria...

...giusto?