sabato 13 dicembre 2014

Il giardiniere di Prada

Stamani, in palestra, ho conversato per la prima volta con un tipo che fa il buttafuori («addetto alla sicurezza dei locali notturni», ha specificato). Mi ha raccontato qualcosa su come si svolgono i sabati sera, la gente stravolta che si droga o si beve whisky e red bull insieme, gli sguardi minacciosi, i coltelli che a volte escono fuori dai pantaloni firmati. Poi non so come - e non ha importanza come - il discorso è volto sulla crisi, sulla mancanza di lavoro e di scrupoli, sul fatto che i soldi vanno sempre a finire nelle tasche di chi ha soldi, «come i pidocchi vanno a finire nelle teste di chi li ha già»proverbio di origine gitana», ha aggiunto). A seguire, per criterio di vicinanza, ha citato Prada, il Bertelli di Montevarchi in particolare, il quale viaggia in elicottero e che pur di atterrare vicino alla fabbrica, e non può, è disposto a pagare una multa di diecimila euro a botta (così mi ha riferito e io ho fatto finta di crederci, non mi sono permesso di contraddirlo su queste bazzecole).
La conversazione - che era piuttosto un monologo, dato che il loquace era lui, io mi limitavo ad annuire - sembrava destinata a sfociare nel mare delle conversazioni inutili, quando, improvvisamente, il buttafuori se ne viene fuori con questa considerazione filosofica: 
«Certo che basterebbe essere il giardiniere di Prada per essere a posto: tagliare l'erba, prendersi cura delle piante e dei fiori del suo giardino ed essere sistemato a vita, senza problemi, bisogni, rotture di coglioni. Frullino, tagliaerba, forbici, un lavoretto qui, uno là e la bella vita».
La bella vita.
Avrei voluto dirgli che Prada è quotata in borsa a Hong Kong, ma non so quanto avrebbe capito mentre, con occhi che brillavano per quel pensiero, tirava pugni e calci al grosso sacco da boxe.
Mi sono limitato a immaginare, in silenzio, che su quel sacco ci fossero le facce di Miuccia e Patrizio.

venerdì 12 dicembre 2014

Chi è che adempie ai doveri inderogabili?

A proposito del recente saggio di Luciano Violante, Il dovere di avere doveri, Einaudi, Torino 2014, Giuseppe Galasso, sul Corriere della sera, odierno,scrive:
«L’articolo 2 della Costituzione italiana è per [Luciano Violante] la formulazione giuridica del fulcro, in fondo, del suo pensiero: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e, però, richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. E quindi, pur nel generale riconoscimento del principio democratico, le democrazie del nostro tempo appaiono [a Violante] in una fase contraddittoria, e ciò soprattutto per lo squilibrio creatosi fra diritti indiscussi e gridati e doveri omessi o sottaciuti.

Si pone così un problema di riequilibrio fra diritti e doveri, che per Violante postula la necessità di ricostruire un ordine costituzionale. A questo solo la politica, il cui primato viene riaffermato, può attendere, senza che ad essa si possa mai sostituire la supplenza di altri poteri pubblici, a cominciare da quello giudiziario, di cui si lamenta l’espansione con la conseguente politicizzazione della giustizia.

Questo nucleo logico del libro è sviluppato in una serie di argomentazioni riferite a casi e problemi particolari del nostro tempo».

***
SOCRATE Cosa dire di colui che mediante sillabe e lettere tenta di imitare la sostanza delle cose? E forse […] se riporta tutto ciò che si addice, l'immagine, cioè il nome, sarà bella, ma se invece talvolta tralascerà o aggiungerà anche poco, sarà pure una immagine, ma non bella? Tanto che dei nomi ce ne saranno alcuni combinati bene, e altri male?
CRATILO Forse sì.
SOCRATE E dunque forse vi sarà un buon artefice di nomi e uno cattivo?
CRATILO Sì.
SOCRATE Dunque costui non aveva il nome di legislatore?
CRATILO Sì.
SOCRATE E dunque forse, per Zeus, ci sarà, come nelle altre arti, un buon legislatore e uno cattivo?
Platone, Cratilo [431d-e]

***
Non credo dovrò attendere la lettura del libro di Violante per sapere se l'Autore indica quale tipo di cittadino, o classe sociale, omette o sottace i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Io presumo di no, che Violante sorvoli la questione, anche perché non penso il saggio sia, seppure in parte, un atto di accusa contro la classe cui egli stesso appartiene.

giovedì 11 dicembre 2014

Sancta simplicitas

«Quando vide la vecchierella trasportare a fatica fino al rogo il suo fascio di legna, [Jan] Hus esclamò: “Sancta simplicitas”. Ma che cosa bisogna dire della ragione del suo sacrificio, la comunione sotto entrambe le specie? Ogni riflessione appare ingenua di fronte alla riflessione più alta, e nulla è semplice, perché tutto diventa semplice nella prospettiva sconsolata dell'oblio.»
T.H. Adorno, Minima moralia, (122.), Einaudi, Torino 1954

Sere fredde, brucio legna, le stufe hanno fame. Sovente m'incanto a guardare l'accartocciarsi veloce dei ramoscelli di abete, il crepitio del pioppo e dell'ontano, il luccichio del carpino, lo scoppiettare del castagno, il resistere incandescente del cerro. Chissà come sarebbero carne e ossa del mio corpo là dentro, a consumarsi, diventare cenere.
Ma non ho freddo sino a questo punto.

No, niente meditazioni sulla cremazione, la crema dei popoli.

Ancora giorni davanti per specchiarsi e ricordarsi. In vita. E poi toccarsi, essere toccati, riscaldati «perché tutto diventa semplice nella prospettiva sconsolata dell'oblio».

mercoledì 10 dicembre 2014

A testa in giù

Sono disorientato, non ho un punto di riferimento, mi sento a capo all'ingiù come se camminassi in Patagonia e dall'alto mi vedessi allo stesso modo in cui adesso osservo l'immoto mappamondo illuminato internamente da una lampadina. Mi va il sangue alla testa. Sarà meglio mi fermi, riassuma, incaselli dentro una tabella a quattro colonne e un numero imprecisato di righe. Date certe premesse, consegue che. Ecco, io non sono conseguente, rimango in premessa. Introduco. «Dipende cosa vuoi introdurre e dove», mi ha detto un'amica via whatsapp, dopo che le ho inviato il mio pallido gomito dicembrino in preda a un'orgia di sole. Amo l'alta pressione, il sole che splende nell'aere adamantino producendo ombre che non vi dico. «Ecco», continua la mia amica, «tienilo all'ombra». Va bene, sommessamente rispondo, mi contengo, sono un contenitore di inibizioni abbastanza capace. E tuttavia sono disinibito. Mi fotografo un capezzolo, premo invio e mi libero. Parti del corpo che vanno in cerca di consenso.

Vorrei tanto ci fosse una rivoluzione proletaria, potrei candidarmi a fare il commissario del popolo. Ho i numeri e le competenze per giudicare cosa è buono e giusto. Un po' di potere, penso, mi farebbe bene. Non mi lascerei prendere la mano. «Qualcos'altro?» Domanda la perspicace amica. Forse saprei essere testadicazzo con le persone giuste e non con quelle sbagliate. Forse. Ma io non cerco il potere, cerco l'impotenza, quella buona e giusta, l'impotenza potenziale racchiusa dentro ogni sforzo umano. Eppure un compito bisogna che me lo prefigga di qui alla completa dismissione dei miei pensieri impuri. Quale? Promuovere, per quanto sta in me, il concetto di disistima assoluta verso il ponte di comando della nave mondo, capipopolo, capibastone, Chief Executive Officer e servitori al seguito compresi. Mostrare quanto poco sono venerabili, quanto molto sono esecrabili. Però sono abili. Abili nel tenere alto il morale della ciurma.

Nach schweren Schicksalsschlägen
Pflegt der Kanzler durch eine große Rede
Seine Anhänger wieder aufzurichten.
Auch der Schnitter, heißt es
Liebt die aufrechten Ähren.
    Dopo gravi colpi del destino

    il Cancelliere con un gran discorso ha cura
    di risollevare i suoi partigiani.
    Anche il mietitore, pare,
    ama le spighe diritte.

Bertolt Brecht, “Trost vom Kanzler” [“Dal Cancelliere vengono consolazioni”] da Poesie di Svendborg, in Poesie, Einaudi, Torino.

martedì 9 dicembre 2014

Michele Serra zappa?

PPR
È dai tempi di Cuore - e forse anche prima - che Serra utilizza la figura retorica sarcastica di braccia rubate all'agricoltura per attaccare e, in pratica, offendere individui o gruppi umani che hanno compiuto azioni deplorevoli. 
È indubbio che, a volte, tale uso abbia una certa pertinenza ed efficacia. Nondimeno, come accade a molte figure retoriche, il sarcasmo mal sopporta la reiterazione, anche quando si tentano delle raffinate varianti sul tema.

Questa volta in particolare, Serra si dà clamorosamente la zappa sui piedi perché...
Prendiamola larga.
Com'è noto, in economia le varie attività economiche sono raggruppate in settori.
L'agricoltura, per esempio, appartiene al settore primario.
Il giornalismo, invece, fa parte del settore terziario (un terziario parecchio avanzato).

Michele Serra è un celebre giornalista e scrittore, il quale, grazie alla sua attività di pubblicista, ha ottenuto, con merito, una prestigiosa posizione editoriale, sicuramente ben remunerata. Allo stesso tempo, per diletto e anche, perché no, per interesse, ha avviato un'attività agricola nel campo (nel campo!) delle piante officinali.
Nella sua rubrica odierna, Michele Serra ha additato al pubblico ludibrio dei “minchioni” (dei commentatori: masochista lui a leggerli, ma più cogliona la redazione di Repubblica a pubblicarli no?) sostenendo che essi, perché hanno la digitazione facile, sarebbero «dita rubate all'agricoltura». 
A questo punto, uno potrebbe pensare legittimamente che la pointe assassine di Serra sia stata scagliata per far ridere qualcuno. Io non ho riso, ma ho pensato: perché egli non invita i commentatori a lavorare nel suo podere, magari a cottimo? Dato il tipo di coltivazione e raccolta, sai che dita profumate. 


Comunque, che misera considerazione hanno dell'agricoltura questi nuovi agricoltori parvenu che, appunto, investono nella terra i loro quattrini? Oh, il vino di D'Alema! Oh, l'olio di De Gregori! Eccetera. Tutta gente che si dà all'agricoltura comprando braccia che fanno per loro agricoltura sennò col cazzo coltiverebbero. Che sia questo il motivo per cui questi ex comunisti imborghesiti mandano volentieri la gente a fare gli agricoltori? Giacché mica possono invitarli in redazione a scrivere (digitare) le rubrichette al posto loro.

lunedì 8 dicembre 2014

A me Roma. Amore ma

Secondo me non è vero che Alemanno ha portato una valigia piena di quattrini in Argentina, non può un ex fascista aver avuto la vista lunga come un Priebke qualsiasi.

Sono preoccupato di come l'improvvisa assenza (sicuramente momentanea) della fitta rete mafiosa che, in un certo qual modo, sosteneva la politica nella capitale, possa far cadere nel vuoto tutta la struttura sovrastante: un rumore di cachi che si spappolano, maturi, sul terreno. Come sono dolci.

Do you remember Franco Fiorito?

E Giuseppe Ciarrapico è completamente estraneo ai fatti. Stefano Ricucci sta bene. Danilo Coppola pure. Gaetano Caltagirone è un galantuomo.

Le baby squillo dei Parioli hanno preso, rispettivamente, sei in geografia e nove a storia. Il marito dell'onorevole Mussolini non ha lasciato dichiarazioni.

Maurizio Costanzo l'ho visto alla radio, carapace compreso. Peccato con la scrittura non si riesca a imitare il suo timbro vocale sennò vi darei una dimostrazione di come mandare affanculo Pierluigi Diaco.

Nanni Moretti ha comprato una Kawasaki Ninja.

Il vero e unico responsabile della situazione è Corrado Guzzanti: così impara a girare un cinepanettone.

domenica 7 dicembre 2014

Momenti identitari

«Natale, qui, non è solo una “ricorrenza religiosa”, è un momento identitario». Michele Serra, L'Amaca, la Repubblica 7 dicembre 2014

Mi ritengo fortunato ad essere nato e cresciuto in un contesto storico-sociale e in un ambiente culturale in cui la mente e il corpo non hanno dovuto subire altre costrizioni oltre a quella, appunto, dell'ambiente storico, sociale e culturale in cui sono nato e cresciuto (tautologia per dire che per fortuna non sono nato nella miseria centrafricana, non sono stato a scuola in una madrasa pakistana, o irreggimentato in una caserma nordcoreana).
Vivere «qui» mi ha dato modo - e mi dà, entro certi limiti, modo di liberare la mente, ovvero non costringerla dentro quei parametri a cui fanno molto affidamento i politici nostrani, un esempio per tutti:



Quanto ciò sia, in fondo, un bene non lo so: è andata così, non voglio farne un vanto. Tuttavia, so che più gli anni passano e più mi accorgo che i momenti identitari coi quali questo cazzo di paese si riconosce (o dicono certuni di riconoscersi) non sono i miei. A me il Natale, per esempio, disidentifica, divide, sdoppia e, quindi, l'identità va a puttane. Di più: più passano gli anni e più mi chiedo perché il Natale deve continuare a essere festa nazionale, e peggio ancora domani, che cosa c'entra l'Immacolata con l'Italia, forse per le madonne che fa tirare? (Attenzione: «qui» espressamente si sottovaluta il peso storico e socio-culturale della Chiesa Cattolica).

Sillogismo: se il Natale è un momento identitario dell'Italia e dell'Europa, allora è doveroso che nella stesura definitiva della Costituzione europea siano riportate le radici giudaico-cristiane dell'Europa, vero Serra? E dunque, già che ci siamo, perché non si mette altresì una noterella in calce all'articolo 7 nella nostra Costituzione?
Il Natale è un momento identitario della Repubblica italiana
Amen.

sabato 6 dicembre 2014

L'autoerotismo col cambio automatico




Tra i privilegi di cui la classe sociale alto borghese gode, va annoverata anche la terminologia che definisce il comportamento e le azioni degli individui a essa appartenenti.
Infatti, se fosse stato un proletario (o un piccolo borghese) seminudo a masturbarsi davanti a una videocamera -  e se poi tale filmato fosse finito in rete per la gioia del popolo - nessuna esitazione ci sarebbe stata nel qualificare tale individuo come un semplice segaiolo. 
Invece, nel caso che le cronache riportano, ci troviamo in presenza di un raffinato autoerotista, il quale, in un noioso pomeriggio della scorsa primavera, avrebbe tirato fuori, non solo il proprio membro, presumibilmente smanettandoselo di buzzo buono, ma altresì un «grosso sasso di cocaina», certamente non per metterselo nel buco del culo.

A partissima.
Se invece di Lapo Elkann fosse stato coinvolto in tal presunto scandalo un figlio di Berlusconi, si sarebbe parlato di telerotismo? Se di Della Valle mocassinoerotismo? Eccetera.

Introfletto ergo sum

Dal 48° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, estraggo:
La solitudine dei soggetti: i dispositivi di introflessione di un popolo di singoli narcisisti e indistinti. La estraneità dei soggetti alle dinamiche di sistema risalta nel rapporto con i media digitali personali. A fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all'80% tra i più giovani di 14-29 anni. Tra il 2009 e il 2014 gli utenti di Facebook 36-45enni sono aumentati del 153% e gli over 55 del 405%. Gli utenti italiani di Instagram sono circa 4 milioni. Delle 4,7 ore al giorno trascorse mediamente sul web, 2 sono dedicate ai social network. E il numero di chi accede a internet tramite telefono cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). La pratica diffusa del selfie è l'evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l'altro da sé. Non è contraddittorio quindi il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona.
Dentro il generale, molte volte, il particolare soccombe o si perde, non viene contabilizzato, specificato. 
Nondimeno, come da un seme soffocato nel terreno, spunta il germoglio io e dichiara: che fortuna poter godere di almeno 78 giorni di isolamento annui. Altro che ferie.

Ma non è così. 

La solitudine: differenza tra chi la fugge e ne è condannato, e chi la cerca non avendone mai abbastanza. Mannaggia, non ritrovo il passo in cui Milan Kundera confronta la parola solitudine tra come viene detta e scritta dai francesi (e, aggiungo, dagli italiani): solitude,  e il modo in cui la scrivono e pronunciano gli spagnoli: soledad, notando - se non ricordo male - la sostanziale differenza esistenziale che si evince tra i due termini: solitude che denota chiusura in sé, contrizione, quasi sofferenza; soledad, a indicare apertura di sé al mondo, emanazione del proprio riflesso esistenziale.

Per concludere: nella media quotidiana sono calcolati anche i minuti trascorsi dentro il cesso?

giovedì 4 dicembre 2014

Il mondo di mezzo

Carminati: è la teoria del mondo di mezzo compà. ....ci stanno.. come si dice.. i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo
Brugia: embè.. certo..
Carminati: e allora....e allora vuol dire che ci sta un mondo.. un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...
Guarnera: (incomprensibile)
Carminati: come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi..
Brugia: certo... certo...
Carminati: cazzo è impossibile.. capito come idea? ... è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra. . cioè.. hai capito?... allora le persone.. le persone di un certo tipo
Guarnera: (inc.)
Carminati: di qualunque cosa... .si incontrano tutti là. . .
Brugia: di qualunque ceto. .
Carminati: bravo...si incontrano tutti là no?.. tu stai lì...ma non per una questione di ceto per una questione di merito, no? ...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno.
Brugia: certo...
Carminati: questa è la cosa... e tutto si mischia.
Brugia: e certo...

Il mondo di mezzo, il mondo nel mezzo, il mondo per mezzo del quale persiste e dura, granitico, il sovramondo e il mondo dei morti inteso come mondo dei morti di fame, carne umana sulla quale poggia e si erge il firmamento dei pezzi di merda. Perché non è Carminati in sé a essere il peggio del mondo, Carminati, anzi, del mondo che persiste e dura, è uno degli esemplari più evoluti, più adattati, più facilmente riproducibili.
Il mondo di mezzo come mondo dell'incontro dei due mondi: incontro presunto, dato che il contatto avviene, necessariamente, per tramite dei mediatori, dei mezzani, appunto. 

Pandaro: «O mondo, mondo, mondo! Così è trattato un povero intermediario! Ah poveri maneggioni e procaccianti! Prima, in ginocchio, chiedono l'opera vostra e poi, ecco la ricompensa! Perché sono richiesti con tanto amore i nostri buoni servigi, e ne è accolto con tanto vituperio, poi, il compimento?»
William Shakespeare, Troilo e Cressida, Atto V, Scena 10, traduzione di Cesare Vico Lodovici per Einaudi, Torino 1965

Tutto si mischia, conclude Carminati, rivelando in parte uno dei trucchi più sofisticati del perché il sovramondo perdura: perché gli dèi offrono gratis, a tutti, l'idea democratica che siamo tutti uguali, tutti popolo sovrano, un voto a testa, stessi diritti, stessi doveri, stesse opportunità, la legge è uguale per tutti, c'è chi ce la fa - e sale, c'è chi non ce la fa - e merda.
Tutti ci possiamo incontrare nel mondo di mezzo, qualunque ceto, e mescolarci. Necessità, a volte, lo impongono. L'importante, tuttavia, è ritornare poi a casa, ognuno al proprio posto, dentro la classe che gli appartiene. Gli individui possono mescolarsi. Le classi, mai.

mercoledì 3 dicembre 2014

In centro

Era qualche settimana, o forse mese, che non mettevo piede in centro. Due palle il centro, vero. C'è sempre così tanta gente e movimento che sembra non ci sia nessuno e tutto sia immoto.
Entro nel Duomo, c'è uno spiraglio tra code di orientali e occidentali. Giro rapido, giusto per verificare a occhio la solidità delle colonne. E se crollassero? Esco veloce tra due ali di venditori ambulanti sorridenti che mi mostrano la loro mercanzia: acquedeboli tutte stinte, scuola pressionista, e dimolti con in mano una sorta di asta metallica filiforme, che serve a chissà che cosa, per accendere i ceri forse, ma ora me la vendono, quando sono uscito di chiesa?
(Successivamente, una conoscente m'informa che sono attrezzi per farsi i selfie. Miseria come sono indietro, io, come sono avanti, loro)

Dopo aver bevuto da Paszokwski un caffè al retrogusto di sapone, mi sono messo cinque minuti cinque seduto in piazza della Repubblica a guardare uno squarcio d'azzurro che benvenuto si profilava tra numerose nuvole - e con i piedi a scalciare un ostinato piccione con la coda come i capelli di Povia - quando una zingara di età matura, corpulenta, vestita come si vestono le zingare con la gonna lunga colorata, il golfino colorato pure, i ciondoli, i capelli neri raccolti in due trecce lunghe e bisunte, mi s'è parata davanti scuotendo un bicchiere di plastica con dentro qualche moneta, dicendomi che aveva fame, aveva freddo, aveva sonno, aveva che cazzo ne so, puoi darmi qualche spicciolo professore, professore? professore? ché ho l'aria di un professore e non quella di un magnaccia come quello che da qualche parte sorveglia la tua professione gentile signora? No, via, non te lo do lo spicciolo, non ve lo do per principio, almeno sino a quando non rilascerete un regolare scontrino o timbro con cui, dopo, concederete un pass di ventiquattr'ore elemosina free, da stare in pace un giorno senza dover a ogni angolo della città respingere te e le tue colleghe questuanti.
La zingara, accigliata, ha volto lo sguardo altrove alla ricerca di un'altra preda meno dialettica.
Subito, a seguire, è arrivata la sorella giovane, stesso gesto e stesse parole di richiesta. Mi sono alzato soffiando un po' d'aria madonnesca, baritono.

Quando sono in centro mi piace vedere le facce. Non solo quelle, ma questo è un altro discorso, soprattutto a dicembre. Occhiatine veloci, mai insistenti, sempre attente a non mostrare alcun tipo di morbosità, connotate di velata ironia e sorriso a corredo. Ogni tanto, tra un centinaio, almeno una faccia che replica una simile ricerca. Brevi lampi di riconoscimento, tra umani.

Quello che c'è di buono nell'andare di tanto in tanto in centro è scoprire quant'è bello uscirne via. E decentrarsi.

martedì 2 dicembre 2014

Una finzione efficace

«Il passo cruciale fu costituito dalla trasformazione del lavoro e della terra in merci; ossia, essi furono trattati come se fossero stati prodotti per essere venduti. Naturalmente essi non erano propriamente merci, poiché non erano affatto prodotti (terra), oppure lo erano ma non a scopo di vendita (lavoro).
Eppure non fu mai escogitata finzione più efficace. Poiché il lavoro e la terra erano acquistati e venduti liberamente, furono inseriti nel meccanismo del mercato. Ora vi era un'offerta e una domanda di lavoro, e un'offerta e una domanda di terra. Di conseguenza, vi era un prezzo di mercato, detto salario, per l'uso della forza lavoro, e un prezzo di mercato, detto affitto, per l'uso della terra. Il lavoro e la terra disponevano di propri mercati, simili a quelli delle merci vere e proprie prodotte con il loro ausilio.
La vera portata di un passo del genere può essere valutata se teniamo presente che “lavoro” e “terra” non sono altro che modi alternativi di definire, rispettivamente, l'uomo e la natura. La finzione della merce affidò il destino dell'uomo e della natura al giuoco di un automa che si muoveva nelle sue guide ed era governato dalle sue leggi. Questo strumento di benessere materiale era controllato esclusivamente dagli incentivi della fame e del guadagno; o, per l'esattezza, dal timore di rimanere senza mezzi di sussistenza o dall'aspettativa di profitto. Fintantoché nessun individuo privo di proprietà poteva soddisfare il suo bisogno di cibo senza aver prima venduto il suo lavoro sul mercato, e fintantoché non si poteva impedire ad alcuna persona dotata di proprietà di acquistare nei mercati meno cari e di vendere in quelli più cari, quella sorta di cieca macina avrebbe continuato a sfornare quantità sempre maggiori di merci a vantaggio della razza umana. La paura della fame per il lavoratore, l'allettamento del profitto per il datore di lavoro, avrebbero mantenuto in moto quel vasto meccanismo.»

Karl Polanyi, La sussistenza dell'uomo, Einaudi, Torino 1983, pag. 33-34 (traduzione di Nanni Negro).


Lo so che, gradualmente, la modernità ha proposto molteplici sfaccettature della summenzionata finzione; e, tuttavia, sempre e soltanto due sono le reali parti in causa: coloro che lavorano o cercano di lavorare per sopravvivere (procurarsi i mezzi necessari per la sussistenza) non avendo altro da vendere che la propria forza lavoro; e coloro che posseggono, i proprietari, i quali vendono o cercano di vendere le merci prodotte (la cui produzione è data dall'impiego della terra e/o dei mezzi di produzione unitamente all'acquisto di forza lavoro) avendo come scopo primario non la sussistenza, bensì il profitto.

Poi accade che nel mondo variopinto ci siano varie eccedenze: di merci (e fanculo al surplus di invenduto) e di individui che, per vari motivi, non riescono a vendere la loro forza lavoro – e faticano a sussistere.

Di questa finzione economica l'umanità è schiava. O meglio: alcuni, pochi, grazie a questa finzione, schiavizzano la maggioranza della popolazione mondiale, beninteso a norma di legge.
Stringo. Ultimamente, lo ammetto, mi sento un pochino testadicazzo, ma se qualcuno sotto Natale propone (via sms per es.) di donare 2 euro per la mera sussistenza dei profughi siriani, senza accennare minimamente al perché manco un'oncia di tutta la ricchezza prodotta è loro concessa, gli orino al centro. E senza tirare lo sciacquone.


lunedì 1 dicembre 2014

Io vedo Euro

A futura memoria di tutti coloro che concentreranno le lor attenzioni elettorali sulla necessità dell'uscita dall'Euro per risollevare l'economia nostrana:

ENTUSIASTA: Tu vedi nero!
SCETTICO: Ma che nero! Come se non li avessi tuttodí sott'occhio certi decreti! Lo ricordi quello sul sale?
ENTUSIASTA: E come!
SCETTICO: E quello sui bronzini, te lo ricordi?

ENTUSIASTA: E ci ho passato un guaio, per quel decreto! Me ne andavo, appena venduta l'uva con le guance piene di bronzini, al mercato, a comperare farina. E lí, mentre sporgevo il sacco, il banditore grida: «D'ora innanzi nessuno accetti piú bronzini: ha corso l'argento solo!»

Aristofane, Le donne a parlamento, traduzione di Ettore Romagnoli 

domenica 30 novembre 2014

Una domenica in riserva (aurea)

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Da quando ho deciso d'investire più di 40 euro in un paio di pantofole la mia vita è cambiata. Oh, non le Crocs che il mayo desnudo su esposto appoggia scortesemente sul petto del gentil cameriere che gli porge, credo, una birra. Ma un bel paio di Birkenstock, improvvidamente chiamate zoccoli dal produttore tedesco, ma ch'io invece, giustappunto, chiamo pantofole. 
Ho fatto i piedi felici, data la mia natura di pantofolaio.

***

Oggi su Repubblica, Antonio Gnoli, nell'intervista settimanale (Straparlando) a un personaggio del mondo culturale italiano, ha conversato con Piergiorgio Bellocchio, «critico letterario e scrittore» fondatore della nota rivista Quaderni Piacentini (1962-1984) e, poi, di Diario (1985-1993), semestrale nato in collaborazione con Alfonso Berardinelli.
A proposito di quest'ultima rivista, Gnoli domanda:

«Colpivano le prime parole del primo numero: “Limitare il disonore”. Cosa volevano dire?»
«Prendere atto di una sconfitta storica e inappellabile [della Sinistra], senza passare dall'altra parte.»

In poche parole, come chiosa lo stesso Bellocchio più avanti, limitare il disonore vuol dire

«Guardarsi dal diventar delle puttane».

Bene, mi piacerebbe che qualcuno cominciasse a fare il conto di quante puttane la sinistra italiana ha prodotto. Ha prodotto, dacché, essendo da un bel pezzo morta, non produce più. 

***

A proposito dei referendum elvetici. Interessante leggere le motivazioni per cui gli svizzeri hanno respinto l'iniziativa popolare di Salvare l'oro della Svizzera.
Ancor più interessante il grafico che indica le tonnellate di oro possedute dagli Stati che io riproduco così:

L'Italia sorprendentemente al terzo posto, medaglia di bronzo delle riserve auree mondiali. 2.451 tonnellate d'oro che equivalgono a 2.451.000.000 grammi di oro. Posto che siamo poco più di 60 milioni di abitanti, quanti grammi toccano a testa? 40,85 grammi di oro che moltiplicato per la quotazione odierna di 30,15€ al grammo fa 1231,62€ per abitante. Praticamente una tredicesima.