L’etimologia
si identifica con l’origine degli strumenti denominativi allorché
la forza di un nome o di un verbo si ricava mediante
un’interpretazione. Aristotele la chiamò σύμβολον,
Cicerone, invece, adnotatio,
poiché essa, sulla base di un esempio, offre
la nozione dei nomi
e dei verbi esprimenti la realtà: in tal modo, fiume ha
tratto il proprio nome da fluire perché cresce fluendo.
La
conoscenza teorica dell’etimologia si rivela spesso di utilità
imprescindibile all’interno del concreto esercizio interpretativo
proprio dell’etimologia stessa: quando infatti vedi da dove è nato
un nome, più rapidamente comprendi la forza che quello stesso nome
racchiude. Conoscendo l’etimologia, l’esame di ogni realtà
diviene certamente più facile. Non tutti i nomi, però, sono stati
imposti dagli antichi secondo natura: alcuni anche secondo il gusto,
così come anche noi diamo a volte nome ai nostri servi o ai nostri
poderi in base a ciò che piace al nostro volere. Da qui il
fatto che non di tutti i nomi è possibile trovare un’etimologia
dal momento che alcuni hanno ricevuto il proprio strumento
denominativo non in base alle loro qualità innate, ma secondo
l’arbitrio della volontà umana. Le etimologie dei nomi si danno
o per causa –
ad esempio re da
[reggere o] agire
rettamente –
o per origine –
ad esempio homo,
che significa uomo,
perché creato ex
humo, ossia dalla
terra – o per
contrarî – ad
esemplo lutum,
che significa fango,
che viene da lavare per
il fatto che il fango non è pulito, e lucus,
cioè bosco,
così detto perché il bosco, oscurato dall’ombra, riluce poco.
Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, Utet. Torino 2013
Un bancomat. Un signore, credo un pensionato, persona distinta, incivilita, sta concludendo delle operazioni, probabilmente un prelievo. Indugia qualche secondo di troppo, ma non fa niente, non ho fretta. Quindi si scosta, esitante, parlottando qualcosa che non capisco, si aggiusta la giacca e si perquisisce, controllando se il portafogli è nella tasca giusta.
Tocca a me. Avanzo verso il terminale, ma il signore non si scosta di molto, sta quasi a fianco, con aria distratta, fischetta qualcosa. Lo guardo di sbieco e «Buongiorno», gli dico, con un tono non propriamente cordiale, come di chi saluta sbrigando una pratica e deviando lo sguardo per non aggiungere parola. Niente. Il signore resta sul posto, dondolante, ma volta lo sguardo alla parte opposta del terminale, facendomi digitare con tranquillità il codice segreto.
Clicco il taglio dei contanti desiderati, rifiuto la ricevuta, estraggo la carta entro i 30 secondi, prendo il contante e lo metto nel portafogli. In quel momento, il signore rivolge lo sguardo e dice: «Senta, per favore. Come ha visto, ho provato anch'io prima di lei, ma non è uscito niente. Siccome la pensione mi arriva il primo [del prossimo mese, immagino], ce l'avrebbe mica due euro per comprare il pane?»
Il pane?
Controllo invano nelle tasche e nel portamonete, ma ho solo un euro (e non sono troppo samaritano da dargliene cinquanta).
«Tenga. Ho solo questo, mi scusi».
«Fa niente, si figuri: andranno bene per il companatico».