Riflettendo a margine (molto a margine) di questo post di Olympe de Gouge
Nelle cicliche situazioni di crisi in cui precipitano le civiltà, crisi che sconvolgono il sistema, che provocano drammatici squilibri e fanno aumentare la soglia di miseria e disagio sociale, la classe dirigente non sa mai bene che cosa fare (o forse lo sa benissimo ma non vuole farlo) per porre un freno alla caduta verso il baratro.
Solo dopo, solo a disastro avvenuto essa prende in considerazione che si poteva (e doveva) fare di più, che sono stati compiuti degli errori di valutazione, che è mancato il coraggio di una politica lungimirante, eccetera.
Questo è comprensivo e anche – in un certo senso – assolutorio, quando la catastrofe è provocata da particolari ed eccezionali “eventi naturali” di fatto imprevedibili (come il terremoto in Abruzzo o il maremoto in Giappone). È chiaro che, in questi casi, ragionare ex post sulle responsabilità umane di fronte al disastro lascia un ampio margine di scuse da dare al popolo da parte di chi occupa posti di comando. Certo, anche qui, quando ci si accorge che le case sono state costruite con cemento simile a farina, la gente s'inalbera e protesta – e a ragione.
Ma a fortiori la gente dovrebbe incazzarsi quando le catastrofi sono dovute chiaramente a responsabilità umane, come nel caso delle grandi crisi economico-finanziarie. Ma perché questo eventuale "incazzamento" spaventa solo fino a un certo punto la classe dirigente?
Perché nei paesi democratici la borghesia è diventata la categoria universale. Certo ci sono differenze sostanziali tra i borghesi cassintegrati e i borghesi capitani d'industria. Certo, ci sono ancora sacche della popolazione che non lo sono (borghesi, intendo) ma che aspirano a diventarlo (vedi la quasi totalità dei migranti).
Per carità, queste cose le diceva già Pasolini nei suoi Scritti corsari criticando la società dei consumi che, a suo dire, era riuscita a uniformare il mondo molto più di qualsiasi fascismo o comunismo. Ce le ricorda oggi, con un notevole articolo, il filosofo Sebastiano Maffettone dalle pagine de Il Sole 24 Ore, dal titolo “Oggi l'«io» si è scollato dal mondo”.
Ne riporto alcuni passaggi:
«Insomma, attraversiamo un'epoca in cui nessuno di noi riesce a vivere in armonia con la propria comunità, a operare pensando che ogni contributo al miglioramento di se stesso possa giovare anche agli altri. Non era così dopo il 1945. In Europa e in Italia, il consenso keynesiano sulla necessità di ridistribuire la ricchezza e sull'opportunità che lo Stato difendesse i più deboli era pressoché totale. Accomunava i socialdemocratici inglesi e scandinavi, i cristiano-democratici tedeschi e il generale De Gaulle, i comunisti italiani e la Democrazia cristiana. Ma valeva anche nella vita di tutti i giorni».
E invece oggi l'io ha subito una sorta di scollamento e questo è attribuibile dunque al fatto che tutti siamo diventati più o meno borghesi, tutti facciamo i cazzi propri.
«Opera uno scollamento dell'io dal resto del mondo, una scissione se vogliamo adoperare la parola di Hegel, che crea difficoltà nel legare la propria attività a quella delle istituzioni e più in generale di dare senso all'esistenza».
La borghesia priva di senso l'esistenza, la svuota: ecco perché la parte borghese, diciamo così, reazionaria si rifugia volentieri verso forme di religiosità coatta, che garantiscono il senso di diversità dal borghese di nascita e dagli affamati del nuovo mondo che lo vogliono diventare.
Ma questo graduale scollamento dell'io dalle illusioni che le tenevano inginocchiato a qualsivoglia altare, secondo Maffettone fa sì che
«non riusciamo più a rappresentare il mondo in forme riconoscibili, e soprattutto a dare senso all'esistenza dopo che il ciclone»della modernità che ci ha resi liberi dalle ideologie che tenevano l'uomo prigioniero. Oggi possiamo sempre più fare quello che ci pare. Siamo liberi. Ma ci mancano i soldi. Siamo borghesi, ma ci mancano i suv e i motoscafi. Siamo divi, ma ci mancano i red carpet e le strafighe vestite Versace che ci accompagnano a tette di fuori. Potremmo essere tutto ciò che vogliamo, ma alla fine cadiamo tutti in trappola degli stessi desideri. È qui che la borghesia fallisce: perché tiene la libertà alle redini del denaro, il grande mediatore. E se proviamo a cercare una via d'uscita, un senso, ecco che
«ci accorgiamo spesso di adoperare fantasie, sogni e utopie terribilmente datati. E proprio per ciò incapaci di svolgere la loro mediazione fondamentale tra la progettualità individuale e il mondo che ci circonda».
Vanno scritti nuovi manuali di felicità. Così per essere meno tristi, in attesa che la rivoluzione si compia. Da sola, ché noi borghesi non siamo capaci di farla, in quanto borghesi, in quanto porci.
P.S.
VZ ha scritto questo post uscito in contemporanea del mio che cito volentieri.