mercoledì 5 febbraio 2014

L'Italia: circolazione semplice.

«I possessori di merci sono entrati nel processo di circolazione come semplici custodi di merci. All'interno del processo l'uno di fronte all'altro nella forma contrastante di compratore e di venditore, l'uno pan di zucchero personificato, l'altro oro personificato. Allo stesso modo che il pan di zucchero ora diventa oro, il venditore diventa compratore. Questi caratteri sociali determinati non derivano dunque in alcun modo dall'individualità umana in genere, bensì dai rapporti di scambio di uomini, i quali producono i loro prodotti nella forma determinata di merci. Tanto poco sono i rapporti puramente individuali quelli che si esprimono nel rapporto fra compratore e venditore, che questi due entrano in questo rapporto solo in quanto il loro lavoro individuale viene negato, diventa cioè lavoro di nessun individuo singolo, diventa denaro. E come è sciocco dunque intendere questi caratteri – dal punto di vista economico, borghese – del compratore e del venditore come forme sociali eterne dell'individualità umana, altrettanto sbagliato è piangerli come abolizione dell'individualità. Essi sono una necessaria espressione dell'individualità sulla base di un determinato stadio del processo di produzione sociale. Nella contraffazione di compratore e venditore la natura antagonistica della produzione borghese si esprime per giunta ancora in modo così superficiale e formale che questa contrapposizione si trova anche in forme sociali preborghesi, giacché essa richiede semplicemente che gli individui si riferiscano l'uno all'altro come possessori di merci.»

Karl Marx, Per la critica dell'economia politica, in Il Capitale, Libro primo, II, Appendici, Edizione Einaudi 1975.

L'Italia, in fondo, non fa altro che vendere che se stessa, il viaggio di Letta in Arabia ne è la dimostrazione. Il problema è che, un volta venduti certi pezzi d'argenteria patria, una volta che hanno in mano i denari, poco o tanti che siano – io penso pochi, maledetti e subito – quelli che comandano li spendono sempre in modo altamente inadeguato, non corrispondente ai bisogni della maggior parte della cittadinanza, soprattutto di quella che lavora e che fatica per il pane e per la difesa della famiglia (non sono concesse rime gratuite in campo economico). C'è da mandare avanti lo Stato (Stato che deve mandare avanti anche me¹) Stato che spende e che espande la sua sete di denari, Stato che non sa fare più i denari col lavoro, con la produzione a partecipazione statale. Ma uno Stato che si è venduto una volta, sarà capace poi di ricomprarsi? Una repubblica democratica fondata sul lavoro che vende una parte di sé a una monarchia assoluta perde, ciò facendo, una parte considerevole di sovranità? Sì.
Domande fallaci, ne aggiungo altre, senza rispondere: lo Stato sarà più in grado di accantonare altre riserve auree, tipo quelle della Banca d'Italia, tra le più cospicue di tutto il mondo? Come e da dove le ha potute accumulare siffatti risparmi? Le ha spremute a chi? Le riserve auree sono succo concentrato di plusvalore? Saranno rimesse in circolazione per ricomprare le quote rivalutate di Bankitalia che talune banche possiedono?


¹[In vita mia, sinora, mi è andata piuttosto bene: sono riuscito soltanto a vendere la mia forza lavoro; da un po' di anni la vendo allo Stato per un certo compenso, più o meno modesto, a seconda delle prospettive di come lo si osserva. Vendo alcune ore di me, lo Stato le compra perché feci il concorso, venni abilitato alla vendita, fu stipulato un contratto a tempo indeterminato, eccomi qua. Non avevo altri talenti imprenditoriali, o artigianali, o commerciali. Né particolari vocazioni per la presente vendita di me su vetrine di maggior rilievo, ma circostanze che lasciamo perdere, stringo, constatando che, sin dalla tenera età, forse perché in casa da bambino ho percepito sempre la fatica delle otto ore di vendita di sé dei miei genitori operai, sopratutto quelle di mia madre che si doveva alzare alle quattro per fare i turni quando io facevo l'asilo e le elementari, e quelle di mio padre, vicino alla pensione, che bestemmiava la schiavitù del lavoro mentre io andavo alle superiori, insomma - non ho stretto - ho percepito sempre il lavoro come una rottura di coglioni, come una privazione di libertà, come un obbligo, una forzatura,  una cosa contronatura, vendersi per denaro, per un tot di anni, trenta, quaranta, cinquanta, con la speranza soltanto di liberarsene - e in questo senso, per ora, a me è andata bene]

Update 6 febbraio
In forma privata, la mia mentore Olympe de Gouges (che ringrazio per correggere i miei errori interpretativi della teoria marxiana), mi segnala che: 
«Ad essere rigorsi, tu non vendi la tua forza-lavoro allo Stato, tu vendi una mansione che ti deriva da un certo ruolo acquisito dagli studi fatti e da un concorso vinto. Il tuo lavoro non si scambia con capitale, ma con reddito. Il tuo lavoro, per quanto utile [...] è un lavoro improduttivo. Solo il lavoro che si scambia con capitale (dunque non con reddito) è lavoro produttivo, ossia produce più valore di quanto non ne "consumi". Il lavoro non è una maledizione, il lavoro è il primo bisogno della vita. Il lavoro nella sua forma salariata è una maledizione, dunque il lavoro nella sua forma schiavile, borghese, il lavoro come misura del valore, come prestazione in cambio di un salario.»

2 commenti:

Olympe de Gouges ha detto...

ora pubblichi la corrispondenza privata, eh! spero non farai la stessa cosa con le cose "piccanti"

Luca Massaro ha detto...

Perdonami cara, ma quando è altamente pedagogica, non posso fare a meno.
Con le cose piccanti, beh, dipende: se sono note esplicative del Kamasutra, non mancherò ;-)