«I
possessori di merci sono entrati nel processo di circolazione come
semplici custodi di merci. All'interno del processo l'uno di fronte
all'altro nella forma contrastante di compratore e di venditore,
l'uno pan di zucchero personificato, l'altro oro personificato. Allo
stesso modo che il pan di zucchero ora diventa oro, il venditore
diventa compratore. Questi caratteri sociali determinati non derivano
dunque in alcun modo dall'individualità umana in genere, bensì dai
rapporti di scambio di uomini, i quali producono i loro prodotti
nella forma determinata di merci. Tanto poco sono i rapporti
puramente individuali quelli che si esprimono nel rapporto fra
compratore e venditore, che questi due entrano in questo rapporto
solo in quanto il loro lavoro individuale viene negato, diventa cioè
lavoro di nessun
individuo
singolo, diventa denaro. E come è sciocco dunque intendere questi
caratteri – dal punto di vista economico, borghese – del
compratore e del venditore come forme sociali eterne
dell'individualità umana, altrettanto sbagliato è piangerli come
abolizione dell'individualità. Essi sono una necessaria espressione
dell'individualità sulla base di un determinato stadio del processo
di produzione sociale. Nella contraffazione di compratore e venditore
la natura antagonistica della produzione borghese si esprime per
giunta ancora in modo così superficiale e formale che questa
contrapposizione si trova anche in forme sociali preborghesi, giacché
essa richiede semplicemente che gli individui si riferiscano l'uno
all'altro come possessori di merci.»
Karl
Marx, Per
la critica dell'economia politica, in
Il
Capitale, Libro
primo, II, Appendici, Edizione Einaudi 1975.
L'Italia,
in fondo, non fa altro che vendere che se stessa, il viaggio di Letta
in Arabia ne è la dimostrazione. Il problema è che, un volta
venduti certi pezzi d'argenteria patria, una volta che hanno in mano i denari, poco o tanti che siano
– io penso pochi, maledetti e subito – quelli che comandano li
spendono sempre in modo altamente inadeguato, non corrispondente ai
bisogni della maggior parte della cittadinanza, soprattutto di quella
che lavora e che fatica per il pane e per la difesa della famiglia
(non sono concesse rime gratuite in campo economico). C'è da mandare avanti lo Stato (Stato che deve mandare avanti anche me¹) Stato che spende e che espande la sua sete di denari, Stato che non sa fare più i denari col lavoro, con la produzione a partecipazione statale. Ma uno Stato che si è venduto una volta, sarà capace poi di ricomprarsi? Una repubblica democratica fondata sul lavoro che vende una parte di sé a una monarchia assoluta perde, ciò facendo, una parte considerevole di sovranità? Sì.
Domande fallaci, ne aggiungo altre, senza rispondere: lo Stato sarà più in grado di accantonare altre riserve auree, tipo quelle della Banca d'Italia, tra le più cospicue di tutto il mondo? Come e da dove le ha potute accumulare siffatti risparmi? Le ha spremute a chi? Le riserve auree sono succo concentrato di plusvalore? Saranno rimesse in circolazione per ricomprare le quote rivalutate di Bankitalia che talune banche possiedono?
¹[In vita mia, sinora, mi è andata piuttosto bene: sono riuscito soltanto a vendere la mia forza lavoro; da un po' di anni la vendo allo Stato per un certo compenso, più o meno modesto, a seconda delle prospettive di come lo si osserva. Vendo alcune ore di me, lo Stato le compra perché feci il concorso, venni abilitato alla vendita, fu stipulato un contratto a tempo indeterminato, eccomi qua. Non avevo altri talenti imprenditoriali, o artigianali, o commerciali. Né particolari vocazioni per la presente vendita di me su vetrine di maggior rilievo, ma circostanze che lasciamo perdere, stringo, constatando che, sin dalla tenera età, forse perché in casa da bambino ho percepito sempre la fatica delle otto ore di vendita di sé dei miei genitori operai, sopratutto quelle di mia madre che si doveva alzare alle quattro per fare i turni quando io facevo l'asilo e le elementari, e quelle di mio padre, vicino alla pensione, che bestemmiava la schiavitù del lavoro mentre io andavo alle superiori, insomma - non ho stretto - ho percepito sempre il lavoro come una rottura di coglioni, come una privazione di libertà, come un obbligo, una forzatura, una cosa contronatura, vendersi per denaro, per un tot di anni, trenta, quaranta, cinquanta, con la speranza soltanto di liberarsene - e in questo senso, per ora, a me è andata bene]
Update 6 febbraio
In forma privata, la mia mentore Olympe de Gouges (che ringrazio per correggere i miei errori interpretativi della teoria marxiana), mi segnala che:
Update 6 febbraio
In forma privata, la mia mentore Olympe de Gouges (che ringrazio per correggere i miei errori interpretativi della teoria marxiana), mi segnala che:
«Ad essere rigorsi, tu non vendi la tua forza-lavoro allo Stato, tu vendi una mansione che ti deriva da un certo ruolo acquisito dagli studi fatti e da un concorso vinto. Il tuo lavoro non si scambia con capitale, ma con reddito. Il tuo lavoro, per quanto utile [...] è un lavoro improduttivo. Solo il lavoro che si scambia con capitale (dunque non con reddito) è lavoro produttivo, ossia produce più valore di quanto non ne "consumi". Il lavoro non è una maledizione, il lavoro è il primo bisogno della vita. Il lavoro nella sua forma salariata è una maledizione, dunque il lavoro nella sua forma schiavile, borghese, il lavoro come misura del valore, come prestazione in cambio di un salario.»
2 commenti:
ora pubblichi la corrispondenza privata, eh! spero non farai la stessa cosa con le cose "piccanti"
Perdonami cara, ma quando è altamente pedagogica, non posso fare a meno.
Con le cose piccanti, beh, dipende: se sono note esplicative del Kamasutra, non mancherò ;-)
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