Walter Pichler |
A volte, non sempre, ma a volte stanchezza di pensare mi prende, stanchezza di analizzare, di gettare uno sguardo dirimente nelle cose là fuori, in quella che alcuni si ostinano, io pure, a chiamare realtà. Come se m'assalisse un'insipiente voglia di fuggire la realtà, di rifugio in uno stato di alterazione e perturbamento, in una passione che separi l'essere dal reale per avvilupparlo in spire ingannevoli. Ma non sono fatto così, non sono strutturato per sciogliermi in un'alterità, quale che sia; trattenuto a terra da considerazioni spurie, come se il mio io sorvegliasse tutti gli stati di coscienza, ne fosse padrone. In buona sostanza, non riesco a uscire da me, a darmi, anche solo per un attimo e per scommessa, a qualcosa che mi faccia sentire l'adesione totalizzante a un assoluto. Meglio così, per carità. Ho provato a credere in qualcosa (una fede, un amore, un'idea), ma l'entusiasmo non ha prevalso - piuttosto l'indolenza, unica dea dalla quale ogni tanto mi lascio possedere.
Abulia, accidia, apatia, melanconia: queste le mie doti prevalenti. Veramente non potrei mai dire che in una determinata attività, scopata a parte (e poi nemmeno in quella che non s'avessero a fare figure di merda), «metterò tutta l'energia di cui sono capace». Energia. Jovanotti ha rovinato una generazione intera con l'energia stocastica.
Eppure, intorno, vedo tanta gente che si dà da fare, anche facendo male o facendo un cazzo, però fa, s'impegna in prima persona, si sente pronta soprattutto a guidare o anche a essere guidata.
Come se avessero bisogno di essere o di avere un faro, come se ci fosse gusto a vivere nella gradazione, nel comando, nell'ordine impartito o ricevuto. Boh - e l'acca questa volta non è muta.
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