sabato 11 dicembre 2010

Parole, parole, parole

È un post molto bello quello scritto in treno da Federica oggi (a proposito: auguri al suo Avvocato G.). È bello sì, ma penso che prenda le mosse da una domanda che io non considero, come invece fa lei, «la domanda delle domande, la più difficile possibile: cos’è per te la parola, cosa sono per te le parole...» (domanda che, pare, le avrà fatto oggi a Pesaro l'organizzatore della presentazione del suo libro).
Federica, ribadisco, ha scritto belle parole su cosa sia, per lei, la parola. Ma io, nel rispondere alla domanda, anche se avessi avuto la medesima ispirazione mi sarei limitato, prima, a considerare questo: la parola (il linguaggio) è l'effettivo sesto senso, dopo vista, tatto, udito, olfatto, gusto. Ovvero, la parola come dato sensoriale che ci consente di conoscere e farci conoscere. La parola come mediazione, medium, che ci permette – a volte contemporaneamente – di vedere, toccare, udire, annusare, mangiare il mondo mediante la rappresentazione simbolica dello stesso. Vuoi fare diventare carne il verbo? Coniugare la parola carne al suo dato effettivo, alla sua carnità. Le parole, le cose. Già

Nel suo Le parole e le cose, Michel Foucault traccia una storia delle epistemi delle tre epoche più importanti del pensiero occidentale (Rinascimento, Età classica, Modernità), caratterizzate tutte da una sorta di discontinuità tra loro.
Nel Rinascimento l'essere umano pensava in termini di Similitudini ove “c'era” una sorta di unità tra le parole e le cose.
Nell'Età Classica invece si affaccia la prima distinzione tra la cosa e la sua rappresentazione. Tutto comincia con Don Chisciotte, ove il linguaggio «spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato letteratura».
Infine, nella Modernità avviene l'ultimo passaggio: l'uomo diventa cosa tra le cose, oggetto di studio e di analisi, studiato e analizzato (analitica della finitudine) e da chi altri se non da se stesso?

«L'uomo è un'invenzione di cui l'archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt'al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz'altro scommettere che l'uomo sarebbe cancellato, come sull'orlo del mare un volto di sabbia»¹.

Breve intermezzo.
Questo passaggio finale del testo foucaultiano mi fa tornare in mente una sequenza del documentario-musicale Imagine di John Lennon e Yoko Ono. In una scena, si vedono i due protagonisti sulla spiaggia, il mare d'inverno, scrivere il loro nome e la parola love sulla battigia e indugiando l'inquadratura proprio nel momento in cui le onde cancellano tali parole.

Ma per ritornare alla Sgaggio, che scrive: «se la parola non si fa carne, se non serve a toccare il mondo se non serve a toccare il mondo, le cose e le persone – e non solo le loro intelligenze, i loro «Verbi» – mi viene da dire che essa non ha alcuna sacralità». Anche se è tardi, anche se mi sto infrenando, vorrei dire a Federica che se le parole perdessero ogni sacralità sarebbe un bene, anche per la carne. Il sacro rinchiude il corpo nel recinto di un linguaggio che solo pochi chierici si assurgono il diritto di saper interpretare.

Concludo: la coscienza che abbiamo di essere vivi è dovuta, in primo luogo, al linguaggio? Ovvero, se la nostra mente non avesse elaborato, nel corso della nostra evoluzione, un linguaggio così raffinato, noi saremmo coscienti di essere vivi? Quali saranno state le prime parole pronunciate dagli erectus? Bunga bunga? Oppure Waka waka?

¹Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967 (pag. 444)

1 commento:

Adriano Maini ha detto...

Al bando i chierici del sapere!