giovedì 4 settembre 2008

Double bind



Una volta soddisfatti i suoi bisogni primordiali, e talvolta anche prima, l'uomo desidera intensamente, ma non sa esattamente che cosa, poiché è l'essere che egli desidera, un essere di cui si sente privo e d i cui qualcun altro gli sembra fornito. Il soggetto attende dall'altro che gli dica ciò che si deve desiderare, per acquistare tale essere. Se il modello, già dotato a quanto pare di un essere superiore, desidera qualcosa, non può trattarsi d'altro che di un oggetto capace di conferire una pienezza d'essere anche più totale. Non è con le parole, è col suo stesso desiderio che il modello indica al soggetto l'oggetto supremamente desiderabile.
(...)
C'è nell'uomo, al livello del desiderio, una tendenza mimetica che viene dal più essenziale di se stesso, spesso ripresa e rafforzata dalle voci esterne. L'uomo non può obbedire all'imperativo "imitami" che dappertutto risuona, senza vedersi rinviato quasi immediatamente a un "non imitarmi" inspiegabile che lo getterà nella disperazione e farà di lui lo schiavo di un carnefice il più delle volte involontario. Il desiderio e gli uomini sono fatti in modo tale da inviarsi di continuo reciprocamente segnali contraddittori, ciascuno tanto meno cosciente di tendere all'altro un tranello in quanto sta per cadere egli stesso in un tranello analogo. Lungi dall'essere riservato a taluni casi patologici (...) il double bind (doppio vincolo), il doppio imperativo contraddittorio, o piuttosto il reticolo di imperativi contraddittori in cui gli uomini non cessano di rinchiudersi vicendevolmente, deve apparirci come un fenomeno estremamente banale, il più banale di tutti forse, e il fondamento stesso di tutti i rapporti tra gli uomini.
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Se il desiderio è libero di fissarsi dove vuole, la sua natura mimetica lo trascinerà quasi sempre nell'impasse del double bind. La libera mimesis si getta ciecamente sull'ostacolo di un desiderio concorrente: genera il proprio fallimento e questo, di rimando, rafforzerà la tendenza mimetica. C'è qui un processo che si nutre di se stesso, che va sempre più esasperandosi e semplificandosi. Ogniqualvolta il discepolo crede di trovare l'essere davanti a sé, si sforza di raggiungerlo desiderando quel che l'altro gli indica; e ogni volta incontra la violenza del desiderio che gli sta di fronte. Con sintesi ad un tempo logica e delirante, deve presto convincersi che la violenza stessa e il desiderio sono ormai collegati l'una all'altro. Il soggetto non può subire la prima senza veder risvegliarsi il secondo.
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La violenza diviene il significante del desiderabile assoluto, dell'autosufficienza divina, della "bella totalità" che non sembrerebbe più tale qualora cessasse di essere impenetrabile e inaccessibile. Il soggetto adora tale violenza e la odia; cerca di dominarla con la violenza; si misura con essa; se per caso è lui a trionfare, il prestigio di cui quella gode presto svanirà; egli dovrà cercare altrove, una violenza più violenta ancora, un ostacolo davvero insormontabile.
René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1980, pagg 193-197

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