Dove lo ha preso questo spirito santo?
Da dove uscì in me uno spirito?
[Ci sono sere particolari in cui uno si domanda da dove venga la sua coscienza di essere vivo qui e perché proprio lui qui e ora e perché non un altro e quanto basti per essere, diventare un altro da ciò che si è ora]
Questo qualcosa di inafferrabile
chiamato spirito fin qui.
Da un cappuccio
buttato su di me
dalla coscienza del gregge?
[La coscienza di sé si forma nel gregge. Uscire dal gregge è uno dei pochi modi per rischiare di ottenere “coscienza”, per diventare cioè in qualche modo esseri umani]
E da dove uscì allora lo spirito?
Dalla spulciatura della mia terra fatta da tutte le larve padre o madre
che non hanno smesso di grattare in me, di sondare, di offuscare il re, di mostrarsi, di scomparire, di corrodere, di livellare. ecc., ecc.
[E infatti: il nostro spirito esce dalla terra ove siamo nati e si forma e si de-forma nello specchio dei nostri genitori (o altri surrogati), della nostra “patria”, del mondo che ci circonda]
Ma non è il vero lato.
Il mio stato è molto più astratto
e vi sono caduto soltanto per cedimento patologico di coscienza,
è la concretezza dell'autentico lato.
La coscienza trema di essere scacciata.
Ma non è la mia, lei ha voluto essere me,
e penetrarmi da capo a piedi.
Come scacciarla?
[Già, come scacciare la coscienza senza diventare altro da stesso, senza rischiare la follia. Ecco Artaud che risponde]
Bruciando le sue teste, e i suoi corpi,
schiacciandola dalla testa ai piedi.
Affermando la mia al posto di quella di coloro che passarono dai coglioni al glande, in uno strano ristabilimento del branco spettrale di queste teste che avanzano accavallandosi,
e non sono in una posizione altrettanto impenetrabile dall'intelligibile,
e basta un po' di soffio, della vecchia polvere insetticida del soffio, per picchiarli, e scartarli.
[Bruciare la testa i il corpo delle larve che nutrono se stesse col nostro sangue per potersi diffondere e moltiplicare; affermare la propria unicità, al posto di una coscienza precostituita; rischiare di uscire fuori di sé, dal recinto della stretta comunitaria, e non essere riconosciuto, di più: scartato. Ma ecco Artaud che compie uno scatto decisivo]
Perché sono io che picchio e distruggo, che impartisco e spartisco, scelgo, decido e ripartisco,
e ogni corpo è inanimato,
assolutamente inanimato all'origine,
e non c'è né corpo né spirito,
e niente appello errante di vita,
nient'altro che il silenzio e la morta
tuberosa di dopo mezzanotte,
riveduta da prima, dall'altra vita,
ma per oggi è finito,
il peso caduto dell'impossibile
e che pesa qui giorno e notte
non peserà più prima che entri
l'inenarrabile cacofonia
degli esseri insorti a vita
contro chi tra colui che impartisce, e spartisce, e ripartisce.
[L'essere venuto al mondo diventa atto rivoluzionario nel momento in cui avviene lo stacco ombelicale definitivo da coloro che impartiscono, spartiscono e ripartiscono la sua vita]
Non ripartisco, fuggo la vita.
Parto
senza localizzare organi,
delocalizzando ogni punto di partenza,
neutralizzando ogni succubo alla partenza
in modo che l'individuo non valga che per quello che ha fatto in corpo nato,
e non in principio innato.
[Lungi da me qui scadere nel politico; ma non sembra qui sentire un appello a liberarsi dalle catene del “territorio”, un appello a delocalizzare se stessi, ovvero la propria mente, partendo dal presupposto ultrademocratico della tabula rasa?]
La coscienza sarà distrutta,
e tutto ciò che essa aveva preso dalle faglie
del mio proprio corpo in partenza;
e che le permise di avere
questa vita da insetto larvato
che incrimina, recrimina, discrimina
nella zona di un pensiero
che non ha nemmeno meritato.
[Voilà]
Perché ciò che su di me parla
è il nulla indebito
delle pelli di esseri
che non avrebbero mai dovuto
purgare, fermentare, soffiare, falciare, ziplare, zaplare, abboffare, sfregare, fischiare, muffare, kieffare, cenare (ne sono pieno)
di me,
una saldatura di cafoni indiscreti, di parassiti coi nasi pelati.
[Avere le palle piene di se stessi, dei propri portati storici ed ereditari, scuoiarsi, ovvero togliersi la pelle che altri esseri - leggi: la tradizione - ha voluto appiccicare alla nostra]
Peptanti di incubi,
piurie succubi,
stillanti dal cubo in fondo al tubo,
ispettori della risciacquatura innata
(il cui primo essere fu questo bisturi bianco di cisti,
cisti, fibra rossa scorticata).
[Zac! Taglio definitivo. Siamo soli, ognuno con se stesso, perso come l'astronauta che si perde nello spazio infinito di 2001 Odissea nello spazio].
Antonin Artaud, Succubi e supplizi, Adelphi, Milano
Questo sopra, intercalato tra parentesi quadre, è un tentativo mio improvvisato, di comprensione di un testo incandescente quale quello artaudiano. Lo si legga con benevolenza.
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