venerdì 5 novembre 2010

Per una diversa drammaturgia

«Quando ero ancora a Heřmanice [carcere di detenzione preventiva] è accaduto un fatto in apparenza non degno di nota, ma per me molto importante interiormente: avevo il turno pomeridiano, era una meravigliosa giornata estiva e stavo seduto su una pila di ferro, riposavo e pensavo alle mie cose mentre in lontananza, dietro la recinzione, osservavo la cime di un albero solitario. Il cielo era di un azzurro intenso, senza nuvole, faceva caldo e non soffiava un alito di vento, le foglie dell'albero brillavano e tremavano debolmente. E lentamente, ma tangibilmente, mi trovai in una disposizione mentale molto strana: mi immaginai di essere sdraiato sull'erba sotto un albero a non far niente, non attendere nulla, non preoccuparmi di nulla, lasciandomi soltanto stordire dal caldo giorno estivo. D'un tratto mi è sembrato che in quell'attimo fossero presenti tutti i bei giorni d'estate trascorsi e quelli ancora da trascorrere […] Nella mia mente mi sembrava di vivere un momento di suprema felicità, di gioia infinita (era come se tutte le altre gioie importanti come, ad esempio, la presenza di coloro che amo, si tenessero in quel momento insieme in maniera profonda), che s'impossessava di me fisicamente e non si limitava a questo: era un momento supremo, di assoluta consapevolezza di me stesso, uno stato immensamente elevato dello spirito, una fusione totale e armonica dell'esistenza con se stessa e con il mondo intero.
Fino a lì niente di particolarmente straordinario. La cosa importante è che tale esperienza, che contrastava così evidentemente con la mia realtà della prigione e del lavoro con il ferro, era più improvvisa e urgente del solito, e mi ha reso consapevole più chiaramente di qualcosa che prima di quei momenti ho provato solo in maniera confusa, cioè che quello stato di suprema felicità conteneva fatalmente in sé un filo d'ansia vagamente opprimente, una leggera eco di malinconia infinita, uno strano sottotono di senso di inutilità profondo e ineluttabile. Si è storditi, si ha proprio tutto quanto si possa immaginare, non si ha bisogno di nulla e non si vuole più nulla e, contemporaneamente, è come se si avesse la sensazione di non avere proprio niente, che la felicità è solo un tragico preludio, che niente ha uno scopo e non porta a nulla. In breve, quanto più bello è il momento, tanto più chiaramente si innalza ancora davanti a noi la chimerica domanda: e che cosa poi? Che cosa in più? Che cosa ancora? Che cosa in seguito? Che cosa bisogna fare dopo e che cosa ne verrà fuori? Si tratta, direi, della percezione dei limiti del finito; ci si è avvicinati ai più remoti confini del significato che l'esistenza finita e terrena può offrire (il significato “spontaneo” e “non metafisico”) e proprio per tale ragione si apre d'un tratto la vista nell'abisso dell'infinito, dell'incertezza, del mistero. Non c'è davvero nessun altro luogo dove andare, salvo nel vuoto, nell'abisso stesso».

Václav Havel, Lettere a Olga, Santi Quaranta, Treviso 2010 (pag 255-6, traduzione dal ceco di Chiara Baratella).

Chissà se un giorno, dopo la fine della dittatura berlusconiana, riusciremo, noi italiani, ad avere un presidente del consiglio dei ministri drammaturgo, e non uno – come l'attuale – che, ogni volta che parla, occorre per la mente uno spurgo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Veramante un grande Havel, non solo come drammaturgo, ma anche come teorico politico. Sì, veramente troppo per noi italiani.

paolo

Anonimo ha detto...

perché drammaturgo?
lo trovo così umanamente vero, così condivisibile, così sincero da essere commovente, ispira empatia profonda

siamo esseri caduchi, nano malefico compreso
solo che non vuole rendersene conto, ha tutto e non ha niente
miserrimo uomo