domenica 28 novembre 2010

Sub specie æternitatis

«Vedendo noi stessi da una prospettiva più ampia di quella che possiamo occupare come esseri di carne, diventiamo spettatori delle nostre vite. Non possiamo fare molto come semplici spettatori delle nostre vite, così continuiamo a viverle e ci dedichiamo a quello che contemporaneamente siam in grado di vedere come nulla più che una curiosità, come il rituale di una religione sconosciuta.
Questo spiega perché il senso di assurdità trovi la sua naturale espressione in [certi] cattivi argomenti […]. Il riferimento alla nostra piccola dimensione e alla brevità della nostra vita, al fatto che tutto il genere umano scomparirà alla fine senza lasciare traccia è una metafora per il passo indietro che ci permette di considerare noi stessi dal di fuori e di trovare curiosa e un poco sorprendente la forma particolare della nostra vita. Immaginandoci da un punto di vista cosmico, noi descriviamo la capacità di vedere noi stessi senza pregiudizi, come arbitrari, idiosincratici, assolutamente particolari abitatori del mondo, una delle possibili innumerevoli forme di vita».
[…]
«Perché la vita di un topo non è assurda? Neanche l'ombra della luna lo è, ma ciò non implica affatto sforzi o scopi. Un topo, tuttavia, deve darsi da fare per sopravvivere. Egli, però, non è assurdo, perché gli mancano le capacità di essere cosciente di sé e di trascendersi che gli consentirebbero di rendersi conto che è solo un topo. Se avvenisse ciò, la sua vita diventerebbe assurda perché l'autoconsapevolezza non gli farebbe smettere di essere un topo, e non gli permetterebbe di essere superiore ai suoi sforzi topeschi. Portando con sé questa autocoscienza appena scoperta, egli dovrebbe fare ritorno alla sua vita meschina, ma frenetica, pieno di dubbi che è incapace di risolvere, ma anche di propositi che è incapace di abbandonare.
Dato che il passo trascendentale è naturale per noi umani, possiamo evitare l'assurdità rifiutando di fare quel passo e rimanendo completamente all'interno della nostra vita sublunare? Non possiamo rifiutare coscientemente perché per farlo dovremmo essere consapevoli del punto di vista che ci rifiutiamo di adottare. Il solo modo per evitare la rilevante coscienza di sé sarebbe o di non arrivarci mai o di dimenticarla – e nessuna delle due cose si può ottenere con la volontà».
Thomas Nagel, Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986 (traduzione di Antonella Besussi).

Che fare? (Riassumo malamente Nagel). Cancellare il proprio Sé mediante un ascetismo religioso? No. Suicidarsi? Nemmeno. Fare come Camus, ovverosia resistere, disprezzare, mostrare i pugni al mondo? Insomma, di troppa bile ci si sovraccarica. E allora? Nagel suggerisce che, una volta constatato che «l'assurdità è uno dei sentimenti più umani che ci riguardano: una manifestazione delle nostre caratteristiche più evolute e interessanti», anche se questo ci porta naturalmente a credere che niente, sotto questo cielo, ha importanza, «allora neppure ciò ha importanza, e possiamo così avvicinarci alle nostre vite assurde con ironia invece che con eroismo e disperazione». L'ironia, già. Ma che vuoto lascia in fin dei conti l'ironia. Anche se l'eco della nostra sottile risata invadesse le periferire della nostra galassia, le nostre mani sarebbero vuote, sole. E quindi? Insieme al riso, l'abbraccio. Leggiamo un Lucas d'annata:

È cominciato l'amore allorquando
una flebile voce radiofonica
annunciava: «Sì, ti sento, tanto»
nella tenera esclusività di un incanto.
Ti si scopre davanti agli occhi
e non sai se quello che leggi
è qualcosa che fugge o che resta
nella bolgia dei fatti. Ma
si sente nelle mani saldare
quella forza che dentro noi cercavamo
quella forza che manca
se isolata da questo contesto.
Pretesto per stringerti,
per abbracciarti, mentre
la pioggia che picchia sui vetri
accompagna la vita.
E son qui adesso, a farle i versi a quella
mentre ripenso ai tersi tuoi sguardi
che ti fan così...

Bella? Mi volevi dire bella? Ma fino a quando, per quanto tempo ancora apparirò, nella luce de' tuoi occhi come una stella? Farò una cosa: ti fotografo gli occhi che in questo istante mi vedono così; poi, un giorno, presentandoti il conto, domanderò: Sono la stessa?
Sì, se terrai gli occhi chiusi.


I tuoi capelli fanno coperta alle mie intenzioni, ai miei sogni. Tu scaldi le mie interpretazioni. Vedi, tu mi dài rifugio, mi fai entrare nelle tue insenature, mi regali il caldo del tuo respiro, la frequenza cardiaca percepita con la punta del mio naso. Io mi metto lì, e mi basta un occhio solo per vedere l'universo. E sento che non riesco a dormire perché contemplare la bellezza del tuo sonno, del tuo sogno, mi trasporta in una città nuova dove il senso dell'assurdo si spenge e comincia una vera illuminazione. Sub specie æternitatis. Resta così, non ti svegliare. Lasciami così, On the Waves of Love.

1 commento:

Anonimo ha detto...

come dire che l'amore da un senso al nostro esistere

potrebbe essere

non sarà molto, non sarà per sempre, ma è caldo ed avvolgente, in questo freddo universo

ne vale, sempre e comunque, la pena...