Volevo, Eugenio, prendere una tua poesia
dei tuoi versi buttati giù a forma di diario
poi mi sono riguardato mentre
mi passavo il filo interdentale
in un rapporto intimo, confidenziale
con le mie gengive.
Volevo prenderla perché
la tua voce, a sera, mi consola
m'intona un ritmo dentro al cuore
mi riporta
sui banchi di quella che non era
la scuola, era la vita
di uno che giovane cercava
un maestro che gli dettasse il giusto
il bello, la nota dissonante che lo
portasse in alto senza bisogno di ali.
E come fu gradevole rubare i tuoi Ossi
in una cartolibreria di provincia
la copertina rotta fu il movente
a compiere quel furto, a commettere
un reato per il quale il tribunale
dei poeti prevede soltanto
una pena accessoria.
Per tale reato, infatti, non c'è stata altra
condanna che quella di cadere
nella prigione del disincanto, dello sguardo
che si posa sulle cose che passano
sapendo che niente dura, che tutto
presto si trasformerà nel fioco
ronzio dell'universo. Eppure
se da qualche parte, con qualche marchingegno
la tua voce un giorno sarà captata
scopriranno come
gli umani sapevano usare le parole
per scopi che non avevano scopo
se non quello della consolazione.
Mi sarebbe tanto piaciuto darti la mano
e non potendo la alzo adesso con un gesto
che osa mòverla a segno di saluto.
E tuttavia...
«Non ho molta fiducia d'incontrarti
nella vita eterna.
Era già problematico parlarti
nella terrena.
La colpa è del sistema
delle comunicazioni.
Se ne scoprono molte ma non quella
che farebbe ridicole nonché inutili
le altre.»
E. M., Poesie disperse.
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