All'ingresso,
sotto l'ampia veranda del bar, seduti su dei comodi canapè, una
decina di carristi dell'esercito italiano consumava la propria pausa.
La collega si ritrova – vi ho già detto perché – numerose paia
di occhi puntate addosso e, mentre per un attimo medito di prenderla
sotto braccio, sì da aumentare l'intensità degli infrarossi che la
spogliavano, mi sono voltato e ho sentito addosso io gli occhi da lupa
(cit.) di una carrista, capelli scuri e coda di cavallo, seduta da
sola su uno sgabello di quelli alti, all'americana, mentre
sorseggiava una coca con dentro una fetta di limone, unica donna tra
i suoi commilitoni. Non amo il genere donne in divisa
ma questa, nonostante la mimetica, trasmetteva una femminilità
potente, del tipo di donna
che sa chiedere quello che
vuole,
anche le palle dell'eventuale partner di turno. Questa la mia
impressione, almeno, più
frutto dei miei attuali desiderata che di un efficace intuito come
di chi la sa lunga (io
non la so lunga).
E
vabbè. Entriamo e ci dirigiamo al bancone. L'illuminazione è scarsa
e il barista indossa una
t-shirt nera con il logo del
bar medesimo. Chiediamo due caffè e, nell'attesa, anziché dare di
gomito alla collega, scherzando sugli sguardi che l'hanno
attraversata, domando dove sia il bagno, ché mi scappa forte, e
quindi.
Passo
così veloce dalla semioscurità del salone del bar alla luce intensa
dell'antibagno. Davanti a me due porte e tre simboli: maschi e
femmine/handicap – e non capisco proprio il collegamento.
Chiaramente, apro quella coi baffi e, che schifo: il wc è colmo di
carta igienica zuppa e giallastra, sotto si nota roba marrone che non
vuole andare giù, lo scarico di plastica dello sciacquone non c'è,
c'è solo un rubinetto dentro l'incasso del muro, sul
quale un ragno di mezzo ettogrammo ha tessuto
una grossa ragnatela. Non ce la faccio, non posso tirare fuori il
pene qui e pisciare, che puzza, no. Esco. Scusatemi, ma mi scappa forte:
apro la porta con gonna
e carrozzina: il cesso è pulito – e ti credo, e c'è pure un
lavandino con sapone liquido di marsiglia. Chiudo la porta e tiro il
chiavistello ma è difettoso. Pace. C'è calma, decido di farla. Ah,
come si sta meglio. Con cura prendo un po' di carta igienica pulita e
la passo per precauzione sul bordo. Ho la mira buona ma non si sa
mai. Ho la coscienza sporca,
ma la voglio lo stesso pulita, sotto certi aspetti.
Tiro lo sciacquone. Mi lavo le mani e, mentre me le sciacquo, la porta si apre: la militare.
Ecco,
a questo punto mi si propongono due opzioni. Continuare il racconto
stando ai fatti, oppure stando alle eventualità che potevano
verificarsi ma non si sono date, se non nella mia immaginazione. In
breve, non so se continuare
io la narrazione, oppure se è
preferibile farmi sostituire da
quel tale che si ostina a chiamarsi
Lucas.
Sarà
meglio ci dorma su.
7 commenti:
troppi caffè
Ennò, non si fa così. Vero o immaginato, qua vogliamo sapere il resto, e ne abbiamo diritto!
Uahahhahaah, fantastico!! Ci sei su Facebook? Paolo Di Muccio
@ Mel
Ho paura di rovinare il finale ;-)
@ Paolo
Sì, un poco feisbucco anch'io.
in ogni caso leggerei il seguito con piacere - contrariamente a odifreddi, io adoro "le storie inventate".
Dipende. Cosa farebbe questo tal Lucas al posto tuo?
@ Junkie
Diciamo che quel tale si lascerebbe perquisire senza opporre resistenza. Io invece sarei proprio un collaborazionista. Questo in linea di massima.
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