«“Le
mie parole si accalcano disordinate, tutte in un punto solo”
scrisse Cincinnatus. “Invidio i poeti. Dev'essere meraviglioso
procedere veloci lungo una pagina e dalla pagina, dove solo un'ombra
continua a correre, spiccare il volo, dritti verso l'azzurro. Il
disordine, la sciatteria di una esecuzione, di tutte le
manipolazioni, prima e dopo. Com'è fredda la lama, com'è liscia
l'impugnatura della scure. Con carta smerigliata. Immagino che il dolore della separazione finale
sarà rosso e chiassoso. Il pensiero, una volta messo per iscritto,
diventa meno opprimente, ma alcuni pensieri sono come un tumore
maligno: lo riconosci, il tumore, lo asporti e ricresce peggio di
prima.”»
Vladimir Nabokov, Invito a una
decapitazione, (1934), Adelphi,
Milano 2004 (traduzione di Margherita Crepax, pag. 193)
Cincinnatus,
il protagonista di questo romanzo, è in attesa di essere decapitato
– ma non sa quando.
Un tal
Lucas è in attesa di scrivere, più o meno tutte le sere, un post, ma
non sa mai bene quale. Lo saprà quando andrà a scriverlo, a comporlo, digitando sulla
tastiera le parole necessarie.
«Il pensiero, una volta messo per iscritto, diventa meno opprimente».
Qualcosa del genere accade anche a quel tale (che non scrive sul
giornale - e va al minimo), ma non perché prima un pensiero opprimente
lo abiti, piuttosto una voglia, l'uzzolo di dire qualcosa, come se
in quel dire uscisse una parte di essere e prendesse la fuga, andasse
per il mondo a rappresentare l'autore, ambasciatore senza pena, come
se tale essere avesse in animo di conquistare una piccola porzione di
spazio nella Babele del mondo.
La
faccio troppo lunga e quando faccio così mi vengo a noia da solo.
Cambio direzione.
Ho scelto la strada dell'eclettismo, che non vuol essere una
forma di enciclopedismo, perché il pensiero non diventi schiavo di se
stesso, esca dal proprio habitus, prenda
aria o dia aria alle finestre della mente, perché insomma non si
incancrenisca in uno gnommero indistricabile, respiri, non speri di essere tagliato per essere sciolto (come i terribili nodi secchi dei lacci delle scarpe dei bambini).
E così esco da me prendendo a prestito parole altrui, assumendole come un farmaco, in attesa poi che entrino in circolo e facciano effetto, mi consentano una reazione.
Stasera ho reagito così, spero non con un rutto (Nabokov non è una pastiglia effervescente: è intramuscolare «Fire of my loins»).
Nessun commento:
Posta un commento