Mark Maggiori |
Che le cose stiano in questi termini è incontrovertibile.
Che pensare di riformare il sistema con gli strumenti concessi dalle attuali democrazie a sovranità popolare (ah, ah) limitata non sia possibile, mi sembra altrettanto chiaro.
Dunque, per sovvertire l'ordine sociale, per mettere in moto una reale e concreta lotta di classe che spenni le piume dell'attuale classe dominante globale, occorre la violenza.
Ma che tipo di violenza? In che misura?
Dalla storia s'impara poco, ma bisogna essere tonti per non accorgersi che la lotta armata rivoluzionaria svoltasi in Europa nell'ultimo terzo di secolo del Novecento è stata un fallimento da non ripercorrere. Cattivo esempio di azione, non solo per il sangue innocente versato, ma anche perché nei momenti cruciali, soprattutto in Italia col rapimento di Aldo Moro, i “rivoluzionari” hanno dimostrato, oltre alla crudeltà, anche - e molta - stupidità strategica e politica.
Quindi, necessariamente, quel periodo storico e quei protagonisti, non possono servire da esempio (se non per non fare ciò che essi hanno fatto) - essi vanno scartati, soprattutto per un motivo: non credo che la lotta armata degli anni settanta abbia mai avuto un consenso esteso da parte della stessa classe che i terroristi avevano in animo di portare al potere.
Per questi motivi, il primo obiettivo dovrebbe essere: estendere la coscienza di classe, far comprendere alla classe degli sfruttati globali gli artifici che tengono in piedi il sistema a beneficio esclusivo di pochi sfruttatori.
Una delle ragioni del successo dell'odierna democrazia liberale dal dopoguerra a oggi è, infatti, di aver incontestabilmente garantito un certo benessere alla classe media dei dominati del primo mondo, sia per una politica economica fondata sul debito, sia perché, per alcuni decenni, la crescita e l'occupazione erano sempre in costante aumento.
Poi, per note ragioni, il giocattolo si è rotto e, a causa della globalizzazione (delocalizzazione delle imprese, libera circolazione mondiale delle merci e del denaro) a crescere enormemente in ricchezza e privilegi sono stati pochi a scapito di molti.
A naso*, mi sembra che, gradualmente almeno, questa coscienza del divario suddetto prenda costante piede. E la voglia di fare qualcosa (ma cosa?) nasce.
Allora, una delle prima cose da fare, è creare le condizioni perché la classe dei dominati (lavoratori dipendenti pubblici e privati, lavoratori autonomi, disoccupati, pensionati non super, gli studenti eccetera) possa convogliare questa coscienza in un'azione (violenta?).
A mio avviso, la prima azione politica, non so quanto violenta, potrebbe essere uno sciopero generale. Uno sciopero a oltranza, in tutti i settori dell'impiego, compreso quello delle forze dell'ordine. Una paralisi totale dell'Italia, dell'Europa del mondo cosiddetto libero (di scioperare).
Tale sciopero, però, non dovrebbe essere convogliato e ammassato nelle piazze delle grandi città, ma esteso un po' dappertutto, per evitare, come sovente accade, di cadere nella solita trappola dello scontro con la Legge.
*Non essendo, il mio, un naso da tartufi, nutro delle riserve sul mio naso. Credo, cioè, che la mia impressione sia dettata più da un pio desiderio che da una fondata analisi. Infatti, nonostante il divario esistente tra ricchi e poveri, che è manifesto a tutti, esso viene tollerato perché la classe dominante globale, tramite un uso sapiente dell'informazione (scuola, mezzi di comunicazione), ha introiettato nella moltitudine degli sfruttati l'idea che gli sfruttatori meritano di occupare il loro trono per il loro prestigio, la loro capacità, il loro acume, la loro cultura; di più: mediante l'esca del sogno americano, ovvero attraverso la possibilità aperta a tutti di avanzare nella scala sociale (grazie alla fortuna o all'ingegno), si è creata l'illusione che, potenzialmente, tutti - se meritevoli o scaltri - ce la possono fare.
A parte.
Un'altra cosa da tenere in considerazione: qualsiasi azione rivoluzionaria, pur con le migliore intenzioni e propositi di rovesciamento del sistema, se viene guidata élite, presto o tardi anch'essa riprecipita la società nella fossa dalla quale era stata sollevata. In altri termini, là dove si forma una "testa" si formano, sotto, tanti "coglioni".
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