«Dio, che giornata eterna! Bah! che
giornata. Vuoi sapere che ore sono, secondo il mio fuso? Le quattro
del pomeriggio. Ehi, se tu fossi qui adesso, sorellina, mamma,
figlia, amante (nipote, zietta, nonnina) forse potremmo chiacchierare
un po' e rannicchiarci vicini – niente porcherie. Solo incastrarci
a cucchiaino. Forse mi lasceresti appoggiare il faccione grigio tra
le dolci parentesi alate delle tue scapole, non mi passa altro per la mente, credimi. Lo so che sei una creatura innocente. Una che non
fuma, non beve e non scopa tanto in giro, scommetto. Mi sbaglio? È
per questo che ti amo... In ogni modo, per come la vedevo io, le
alternative realistiche di cui disponevo erano sei. Mettermi subito a
letto, con un po' di scotch e qualche Serafim in corpo. Tornare
all'Happy Isles e vedere come se la cavava la piccola Moby. Chiamare
Doris Arthur. Acchiappare uno spettacolo hard core dietro l'angolo,
sulla maledetta Settima Avenue. Uscire a ubriacarmi. Restare e
ubriacarmi.»
Martin Amis, Money,
(1984), Einaudi, Torino 1999 (traduzione di Susanna Basso).
È
troppo tempo che non mi ubriaco, porca puttana, e non so neanche
perché. O meglio, lo so, il perché: perché l'ultima volta che mi
sono ubriacato, dopo, sono stato così male, ho vomitato l'anima, ho
perso quasi i
sensi, e il mal di capo conseguente mi ha tormentato per un'intera
giornata. Quindi evito, in
primo luogo per i postumi. Ma
anche perché, in fondo, lo stato euforico non mi dice più un cazzo,
disinibito lo sono abbastanza, e l'ottundimento mentale causato da
alcol o droghe lo trovo analogo a quello determinato dalla fede (a differenza che, quest'ultima, una volta assunta, ha effetti più a lungo termine,
quasi sempre al termine). Insomma, uscire fuori di sé non mi sembra
il caso, ci sono troppi effetti collaterali. Meglio divertirsi con
quanto già siamo, maschere
senza maschera, mendicanti
in cerca di piacere e di consolazione tra le dolci parentesi alate delle scapole altrui.
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