Dal fondo della nostra inquietudine estrarre frammenti.
Sull'orlo di un precipizio. Le gambe che tremano, il vento alle spalle e le ginocchia che si piegano e toccano terra. Nessuna preghiera esce: la parola resta dietro il sipario di un corpo immobile, impaurito, paralizzato. Lo sguardo, soprattutto, si rifugia nell'assenza, nell'insignificanza, svuotandosi di tutto il lemmario di cui è stato (e sarebbe) capace. Uno sguardo che cambia discorso, che mina i ponti della comunicazione.
Facci caso: senti come le mascelle si contraggono e come i molari premono uno contro l'altro, digrignando, e come la lingua punta con forza contro il palato, come una tigre prigioniera.
Meno male esistono la luna e le stelle e il cielo che le contiene. Il cielo, quando si ha bisogno, assume tutte le figure, le facce che vogliamo, ricettacolo della nostra rabbia repressa o del nostro amore incompreso. E gli gridiamo contro, al cielo, anche facendo finta perché c'è sempre qualcuno intorno che si potrebbe stupire e chiederci se siamo ribaltati. Nondimeno, il grido esce lo stesso e il cielo lo riceve e assorbe tutta la sua eco - il disagio, lo sfregio, lo spregio fuori finalmente dell'atmosfera¹.
Il vento si è calmato un po': da spinta si è trasformato in carezza. È più facile rialzarsi ora, respirare pure.
_______________¹I famosi buchi del or sono (piacciono tanto a Vattimo).
2 commenti:
Eccellente.
Grazie cara Mel.
Buona domenica.
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