Dietro la frase «non sono un santo» si nasconde l'abietto scopo di considerare i propri vizi meritevoli di comprensione e indulgenza: una strizzatina d'occhio per ritrovare la complicità e la compiacenza del popolo. Ma questi simili, questa gente comune, era prima (e certamente anche ora) considerata dall'alto del proprio piedistallo o predellino, come mandria da guidare col piglio di Uomo della Provvidenza che si dichiarava, spudoratamente, Unto del Signore. Questa è a mio avviso un'ulteriore prova della bassezza morale, della vera e propria pusillanimità del soggetto che, per paura di rotolare giù dal trono, scende metaforicamente da esso di sua spontanea volontà per abbracciare i vizi di noi poveri ladri di cavoli e di noi si rivuole fratello. Leggiamo Montaigne...
«Gli uomini non sono che varietà e dissomiglianza. I vizi sono tutti uguali in quanto sono tutti vizi, e così forse la pensano gli stoici. Ma, benché siano ugualmente vizi, non sono tuttavia vizi uguali. E colui il quale ha oltrepassato di cento passi i limiti,
Quos ultra citraque nequit consistere rectum
[«Al di là e al di qua dei quali non può trovarsi il bene». Orazio, Satire, I, 1, 107]
non sia di peggior stampo di colui che ne è soltanto a dieci passi, non è credibile; né che il sacrilegio non sia peggiore del furto di un cavolo del nostro orto;
Nec vincet ratio, tantumdem ut peccet idemque
Qui teneros caules alieni fregerit horti,
Et qui nocturnus divum sacra legerit
[«Né la ragione potrà persuaderci che colui che ruba cavoli novelli nell'orto altrui commettta un crimine altrettanto grave di colui che di notte ruba nei templi degli dèi», Ibid, I, 3, 115-117]
C'è in questo tanta diversità quanta in qualsiasi altra cosa.
Confondere l'ordine e la misura dei peccati è pericoloso. Gli assassini, i traditori, i tiranni ci guadagnano troppo. Non è giusto che la loro coscienza si consoli del fatto che un altro è ozioso, o dissoluto, o meno assiduo nella religione. Ognuno esagera il peccato del suo compagno, e attenua il proprio».
Michel de Montaigne, Saggi, Libro II, Capitolo II, Adelphi, Milano.
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In altre parole
LA QUANTITÀ È QUALITÀ
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