lunedì 24 agosto 2009

Visita a un'écrivain



Giovedì scorso son stato a trovarli. Lo faccio da anni ormai, dal giorno in cui colei che poi sarebbe stata mia moglie (che è nata a Montreux) mi regalò La vera vita di Sebastian Knight. Il cimitero di Clarens è un giardino vero e proprio, panchine incluse poste all'ombra di alberi secolari. Il mio preferito è un possente cedrus atlantica, gigante buono. Mi ha stupito trovare (non so se si vedono bene) alcune monete di euro, di franchi, di rubli posati in fondo alla tomba; la cartolina poggiata è un'immagine di San Pietroburgo con una dedica in cirillico. Quest'anno il troppo caldo mi ha impedito di star lì a lungo, seduto, a leggere alcune pagine dell'écrivain. Lo faccio ora e le prendo da quel capolavoro che è Il dono

«La formula triadica dell'esistenza umana: irreversibilità, irrealizzabilità, inevitabilità» (p. 131)

«La costante sensazione che i nostri giorni terreni siano solo argent de poche, monetine che tintinnano nel buio delle tasche, e che da qualche parte esista il vero capitale da cui finché siamo vivi dobbiamo saper riscuotere i dividendi in forma di sogni, lacrime di felicità, montagne lontane» (p. 209)

«Vide venire in direzione opposta alla sua una ragazza con una bottiglia di latte; somigliava un po' a Zina, o meglio: aveva una particella di quel fascino al tempo stesso peculiare e vago che Fedor Konstantinovic trovava in molte donne, ma con una pienezza particolare in Zina, di modo che tutte loro avevano con Zina una misteriosa affinità che lui solo conosceva, anche se non riusciva assolutamente a formulare i segni di quell'affinità [...] - e ora, voltandosi a guardare la ragazza e cogliendo una linea da tempo familiare, dorata, volatile, che si dileguò subito e per sempre, provò l'urto fugace di un desiderio disperato, il cui incanto e la cui ricchezza stavano proprio nell'impossibilità di soddisfarlo. Banale demone degli ardori da boulevard, non tentarmi con l'orribile cliché “è il mio tipo”. Non è questo, non è questo è qualcosa che sta dietro questo. La definizione è per sua natura finita, è il limite e confine, mentre io voglio il lontano, e al di là degli ostacoli (delle parole, dei sentimenti, del mondo) cerco l'infinità in cui tutto, tutto si riunisce» (p. 408).

«Provi a sentire il futuro fremito retrospettivo di un cuore altrui... Le si rizzeranno i più piccoli peli dell'anima! E in genere bisognerebbe farla finita con la nostra barbara percezione del tempo; sa, io mi diverto quando la gente comincia a dire che tra un trilione di anni la terra si congelerà, che tutto scomparirà se le nostre tipografie non verranno trasferite per tempo su un pianeta vicino. Oppure prenda la vecchia tiritera sull'eternità... Dio mio, all'universo è stato ormai concesso tanto di quel tempo che la data della sua fine sarebbe già dovuta arrivare: non ci si può ragionevolmente immaginare in nessun singolo segmento di tempo un uovo intero su una strada per cui passano all'infinito eserciti. Che sciocchezze! Il nostro fallace sentimento del tempo come di qualcosa in continua crescita è una conseguenza della nostra finitezza: trovandosi sempre al livello del presente, ne dà per scontato il costante innalzamento tra l'abisso d'acqua del passato e l'abisso d'aria del futuro. È per questo che l'esistenza ci appare come un'eterna trasformazione del futuro in passato (processo in realtà illusorio), come un mero riflesso delle metamorfosi materiali che hanno luogo in noi. In queste circostanze il tentativo di capire il mondo si riduce al tentativo di capire ciò che noi stessi abbiamo deliberatamente reso incomprensibile. L'assurdo a cui perviene il pensiero avido di sapere non è che un segno naturale della sua appartenenza alla specie umana, e sforzarsi di ottenere a tutti i costi delle risposte è come pretendere che un brodo di gallina dica coccodè. La teoria a mio giudizio più seducente - che il tempo non esiste, e tutto è una sorta di eterno presente, una luce radiosa che sfugge ai nostri occhi ciechi, - è un'ipotesi altrettanto estrema e disperata delle altre». (pp. 424-5)

Vladimir Nabokov, Il dono, Adelphi, Milano 1991

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