Inizio capitolo 17 del Libro Primo de Il Capitale di Karl Marx
«Alla
superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare
quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che
viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Qui si parla
del valore del lavoro e si chiama l’espressione monetaria di
quest’ultimo prezzo necessario o naturale del lavoro. D’altra
parte si parla di prezzi di mercato del lavoro ossia di prezzi
oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo necessario.
Ma
che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro
sociale speso per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la
grandezza del
suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da
che cosa sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una
giornata lavorativa di dodici ore? Dalle dodici ore lavorative
contenute nella giornata lavorativa di dodici ore; il che non è che
un’insulsa tautologia[1].
Per
essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque
esistere prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli
un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non lavoro[2].»
[1]«
Il Ricardo evita abbastanza ingegnosamente una difficoltà che sembra
opporsi a prima vista alla sua teoria secondo la quale il valore
dipende dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione. Se
questo principio è rigidamente tenuto fermo, ne consegue che il
valore del lavoro dipende dalla quantità di lavoro impiegata per
produrlo — il che è evidentemente assurdo. Perciò, con un’abile
mossa, il Ricardo fa dipendere il valore del lavoro dalla quantità
di lavoro necessaria per la produzione del salario; o, per dirla con
le sue parole, sostiene che il valore del lavoro dev’essere stimato
mediante la quantità di lavoro richiesta per la produzione del
salario, con il che egli intende la quantità di lavoro richiesta per
produrre il denaro o la merce dati al lavoratore. Questo è come dire
che il valore di una stoffa è stimato non mediante la quantità di
lavoro impiegata per la sua produzione, ma mediante la quantità di
lavoro impiegata nella produzione dell’argento con il quale la
stoffa viene scambiata » (A
Critical Dissertation on the Nature ecc.
of Value, pp. 50, 51).
[2]
«
Se voi chiamate il lavoro una merce, esso non è però eguale a una
merce, prima prodotta per lo scambio e poi portata al mercato, dove
dev’essere scambiata con altre merci che si trovano sul mercato e
con le rispettive quantità di ciascuna; il lavoro è creato nel
momento in cui è portato al mercato, anzi, viene portato al
mercato, prima di essere creato » (Observations
on some verbal Dispute: ecc.,
pp. 75, 76).
Ieri sera mi ha scritto il farabutto. «Farà brutto», mi sono detto, e infatti piove. Come ha detto il Comandante Nebbia su Twitter: «Un'altra campagna elettorale non la reggo senza doparmi».
Io, per la verità, mi dòpo da tempo, con Karl Marx. Lo sento, mi entra nelle vene, un po' come mi è entrato, a suo tempo, Darwin. Sono attratto dalle idee pericolose, perché rivoluzionano completamente il modo di pensare.
Per esempio, questo fatto che il lavoro è una merce particolare che viene corrisposta con un salario e che questo scambio (denaro in cambio di lavoro) sia un pilastro sul quale si regge la produzione capitalistica, chi me l'avrebbe mai insegnato se non Marx? O meglio: chi altri, se non Marx, ha rivelato che
«La forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito.Nelle prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal lavoro coatto per il signore del fondo.Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito. Nel lavoro salariato all’incontro persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione.Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso.Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.Se la storia universale abbisogna di molto tempo per penetrare l’arcano del salario, non c’è invece niente di più facile a capire che la necessità, le raisons d’étre di questa forma fenomenica.»
Non esiste alcun partito politico, alcun sindacato, alcun intellettuale “visibile” che discuta di queste scoperte fondamentali, che sono lì alla portata di noi tutti, come la muffa di Pasteur (altra intuizione, quella della muffa, che debbo questa volta al demopazzo).
Voglio dire: se queste idee cominciassero a occupare la mente di coloro che per vivere debbono vendere la propria forza-lavoro - mente ahimè! presidiata dai memi del capitale (politica, religione, sport, spettacolo, ecc.) -, potrebbe aver senso rioccupare lo spazio della politica, scendere in piazza, partecipare. Altrimenti, incazzarsi per l'ennesima volta ancora per quel delinquente di Berlusconi, no, non ce la faccio, not in my name.
1 commento:
:)
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