domenica 29 settembre 2013

Alla superficie della società borghese

Inizio capitolo 17 del Libro Primo de Il Capitale di Karl Marx

«Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Qui si parla del valore del lavoro e si chiama l’espressione monetaria di quest’ultimo prezzo necessario o naturale del lavoro. D’altra parte si parla di prezzi di mercato del lavoro ossia di prezzi oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo necessario.
Ma che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro sociale speso per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la grandezza del suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da che cosa sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una giornata lavorativa di dodici ore? Dalle dodici ore lavorative contenute nella giornata lavorativa di dodici ore; il che non è che un’insulsa tautologia[1].
Per essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque esistere prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non lavoro[2]

[1]« Il Ricardo evita abbastanza ingegnosamente una difficoltà che sembra opporsi a prima vista alla sua teoria secondo la quale il valore dipende dalla quantità di lavoro impiegata nella produzione. Se questo principio è rigidamente tenuto fermo, ne consegue che il valore del lavoro dipende dalla quantità di lavoro impiegata per produrlo — il che è evidentemente assurdo. Perciò, con un’abile mossa, il Ricardo fa dipendere il valore del lavoro dalla quantità di lavoro necessaria per la produzione del salario; o, per dirla con le sue parole, sostiene che il valore del lavoro dev’essere stimato mediante la quantità di lavoro richiesta per la produzione del salario, con il che egli intende la quantità di lavoro richiesta per produrre il denaro o la merce dati al lavoratore. Questo è come dire che il valore di una stoffa è stimato non mediante la quantità di lavoro impiegata per la sua produzione, ma mediante la quantità di lavoro impiegata nella produzione dell’argento con il quale la stoffa viene scambiata » (A Critical Dissertation on the Nature ecc. of Value, pp. 50, 51).
[2] « Se voi chiamate il lavoro una merce, esso non è però eguale a una merce, prima prodotta per lo scambio e poi portata al mercato, dove dev’essere scambiata con altre merci che si trovano sul mercato e con le rispettive quantità di ciascuna; il lavoro è creato nel momento in cui è portato al mercato, anzi, viene portato al mercato, prima di essere creato » (Observations on some verbal Dispute: ecc., pp. 75, 76).



Ieri sera mi ha scritto il farabutto. «Farà brutto», mi sono detto, e infatti piove. Come ha detto il Comandante Nebbia su Twitter: «Un'altra campagna elettorale non la reggo senza doparmi». 
Io, per la verità, mi dòpo da tempo, con Karl Marx. Lo sento, mi entra nelle vene, un po' come mi è entrato, a suo tempo, Darwin. Sono attratto dalle idee pericolose, perché rivoluzionano completamente il modo di pensare.
Per esempio, questo fatto che il lavoro è una merce particolare che viene corrisposta con un salario e che questo scambio (denaro in cambio di lavoro) sia un pilastro sul quale si regge la produzione capitalistica, chi me l'avrebbe mai insegnato se non Marx? O meglio: chi altri, se non Marx, ha rivelato che
«La forma del salario oblitera quindi ogni traccia della divisione della giornata lavorativa in lavoro necessario e in pluslavoro, in lavoro retribuito e lavoro non retribuito. Tutto il lavoro appare come lavoro retribuito.
Nelle prestazioni di lavoro feudali il lavoro del servo feudale per se stesso è distinto nello spazio e nel tempo, in maniera tangibile e sensibile, dal lavoro coatto per il signore del fondo.
Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito. Nel lavoro salariato all’incontro persino il pluslavoro ossia il lavoro non retribuito appare come lavoro retribuito. Là il rapporto di proprietà cela il lavoro che lo schiavo compie per se stesso, qui il rapporto monetario cela il lavoro che l’operaio salariato compie senza alcuna retribuzione.
Si comprende quindi l’importanza decisiva che ha la metamorfosi del valore e del prezzo della forza-lavoro nella forma di salario, ossia in valore e prezzo del lavoro stesso.
Su questa forma fenomenica che rende invisibile il rapporto reale e mostra precisamente il suo opposto, si fondano tutte le idee giuridiche dell’operaio e del capitalista, tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico, tutte le sue illusioni sulla libertà, tutte le chiacchiere apologetiche dell’economia volgare.
Se la storia universale abbisogna di molto tempo per penetrare l’arcano del salario, non c’è invece niente di più facile a capire che la necessità, le raisons d’étre di questa forma fenomenica.»
Non esiste alcun partito politico, alcun sindacato, alcun intellettuale “visibile” che discuta di queste scoperte fondamentali, che sono lì alla portata di noi tutti, come la muffa di Pasteur (altra intuizione, quella della muffa, che debbo questa volta al demopazzo).
Voglio dire: se queste idee cominciassero a occupare la mente di coloro che per vivere debbono vendere la propria forza-lavoro - mente ahimè! presidiata dai memi del capitale (politica, religione, sport, spettacolo, ecc.) -, potrebbe aver senso rioccupare lo spazio della politica, scendere in piazza, partecipare. Altrimenti, incazzarsi per l'ennesima volta ancora per quel delinquente di Berlusconi, no, non ce la faccio, not in my name.