giovedì 26 aprile 2012

Stasera non posso scrivere

«Supponiamo invece che io riesca a rimaneggiare il tutto, a impastarlo di nuovo, rimasticarlo, inghiottirlo, rigurgitarlo... e ci aggiunga le mie spezie e lo innaffi di me stesso a tal punto che dell'autobiografia resti solo polvere – la polvere, naturalmente, con cui si fanno i cieli più arancioni».
Stasera non posso scrivere. È chiaro, dovrei fermarmi per qui per non cadere in contraddizione. Ma non è questo il punto. Stasera non dovrei scrivere perché non posso scrivere nemmeno allusivamente quello che vorrei dire. Stasera dovrei essere interamente cristallino, buttare tutto fuori come fosse una confessione e non aver paura poi di ritrattare niente.
Stasera dovrei scrivere in questo modo, ma se lo facessi verrebbe meno la ragione mia di scrivere la storia quotidiana di quel tal Lucas che se ne va in giro per il mondo come piuma, per non appesantirlo con presunte verità che non possiede.
Stasera vorrei che avesse la bocca il cuore: similitudine banale, devo ammettere, ma sto scrivendo con una certa fame di un alimento che non c'è bisogno di specificare.
Se stasera scrivessi ciò che veramente sento che dovrei scrivere, farei diventare Lucas qualcosa che esce dallo specchio, per affacciarsi al cielo della notte e fissare la Luna e Giove lucenti, fino a sentire la brezza inumidirgli il viso. Ho detto brezza, non lacrime.
Stasera allora no, non scrivo, lascio scrivere qualcuno che, negli anni Trenta del Novecento, scrisse pagine che si sono tatuate nella mente di chi le ricopia nell'illusione che, facendolo, possa riuscire a ripeterle a chi gli cammina accanto.
«Pagato il conto, restavano undici pfenning – contando anche la monetina annerita che qualche giorno fa Zina aveva raccolto da un marciapiede come portafortuna. Per strada Fëdor Konstantinovič sentì un rapido brivido lungo la spina dorsale – e di nuovo quel senso di imbarazzo, ma già in una diversa, languida forma. Fino all'Agammennonstrasse c'erano una ventina di minuti a passo lento; aveva dolorose fitte alla bocca dello stomaco per l'aria, per il buio, per l'odore di miele dei tigli in fiore. Il profumo svaniva, sostituito da una nera frescura, nel tratto da un albero all'altro, ma sotto la cupola successiva, già in attesa, si gonfiava una nuova nuvola soffocante, inebriante, e dilatando le narici Zina diceva: “Ah, che bello, senti!” – e ancora una volta l'oscurità perdeva sapore, e ancora una volta sapeva di miele. Davvero oggi, davvero adesso? Il peso e la minaccia della felicità. Quando cammino così con te, piano piano, e ti tengo per la spalla, tutto comincia a ondeggiare lievemente, e sento un ronzio nella testa, e le gambe si fanno molli, e la scarpa sinistra già scivola via dal tallone, e ci trasciniamo, ci annebbiamo, ci struggiamo, – e siamo a un passo dallo scioglierci completamente, senza lasciare tracce. E un giorno ricorderemo tutto questo: i tigli, l'ombra sul muro, le unghie lunghe di un barboncino che ticchettano sul selciato della notte. E la stella, la stella».
Io avevo detto un satellite e un pianeta, ma non importa. Anzi: sono i piccoli dettagli che fanno la differenza e rendono ogni vissuto irripetibile.

N.B.
I brani di Vladimir Nabokov sono tratti da Il dono, Adelphi, Milano 1991, traduzione di Serena Vitale.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

struggente e palpitante

una delle più belle pagine che tu abbia mai scritto, a mio parere

beata Lei
N.

Luca Massaro ha detto...

cara N. è stato facile scriverle... ehm... ricopiarle col sostegno dell'impareggiabile Nabokov.

Anonimo ha detto...

preferisco le tue, di parole, senza nulla togliere a Nabokov
(smack!)
N.