venerdì 25 novembre 2011

Forse un giorno faremo l'amore

Le sette di sera, uscita dall'aula cinque, finita la lezione di psicologia generale. Com'è buio qua fuori, vuoi una sigaretta, no grazie, ho la gola che brucia. Cosa fai lì, tentenni, perché non prendi l'auto e te ne vai a casa? È il tuo primo anno accademico, non conosci nessuno o quasi, non è che puoi andare fuori al ristorante, i buoni mensa non valgono. Ah, aspetti che esca quella ragazza con i capelli chiari raccolti, pantaloni di velluto che  fasciano le gambe in modo sensuale e gli stivali da cavallerizza. Cosa lei vuoi dire, non fare lo scemo, ti presenti così passi male, ci vuole una scusa, lo sai come funzionano queste cose. Sì, così va meglio, cerca di incrociarne lo sguardo e abbozza un sorriso; basta questo, vedrai, è più che sufficiente. Ecco, se n'è andata. Puoi partire anche te.
«Ciao Carlo», ti senti chiamare di spalle.
«Anna, anche tu qui? Non ti avevo vista. Anche tu frequenti questo corso?».
«Sì, l'avevo sempre rimandato perché ho preferito seguire e sostenere altri esami importanti. Ma quest'anno mi tocca. Ma tu piuttosto. Non credevo ti fossi iscritto, ti sapevo già al lavoro». 
«Mi sono licenziato. Era un lavoro di merda. E Daniela mi ha lasciato. Ho deciso d'iscrivermi, lavorerò d'estate. Ci vediamo allora, la prossima settimana».
«Sì, ciao, d'accordo. Ma dimmi: abiti sempre dai tuoi?»
«Sì, purtroppo».
«Me lo daresti un passaggio visto che anch'io stasera devo tornare al paese dai miei?».
«Volentieri. Ti fidi di me?».

L'auto è piena di fogli, libri e giornali. Carlo si scusa, fa niente, basta un piccolo spazio per me. Carlo accende la radio, i Pink Floyd vanno bene o preferisci De Gregori? Cosa vuoi, qualsiasi cosa va bene. 
La canzoni si susseguono, a volume basso. L'intenso traffico richiede concentrazione.

«Beh, scusa. Devi scusarmi».
«Scusarti di cosa?», dice lei.
«Beh, quella volta, ricordi. Ti avevo invitata a casa a fare i compiti, insieme a Barbara e Paolo, ma Barbara non venne».
«Ho capito. Non continuare».
«Perché? Ti prego di scusarmi, ero giovane, non sapevo cosa dovevo fare, avevo visto dei giornaletti porno dove facevano così, e poi Paolo era così insistente nel volerci provare».
«Stai zitto, ti prego, smettila, ti scongiuro».
«Volevo dirti che sono profondamente dispiaciuto per quello che ti abbiamo fatto».
«Basta!».

Anna si avventa sul volto di Carlo, l'auto sbanda, quasi urta un'auto che arriva in senso inverso, Carlo riesce a schivare l'impatto, frena, si ferma, si libera dalle mani di lei sul suo viso, scende, respira.
«Cazzo fai, cazzo hai fatto, che ti prende, sei impazzita?»
«Ti avevo detto di smetterla», grida Anna, piangendo.
«Ma io volevo solo chiederti scusa».
«Scusa un cazzo. Sono dieci anni che vado in analisi per colpa vostra, per colpa di quei cazzi di fuori sbandierati davanti a me bambina, capisci brutto testadicazzo? No, non capisci, non capisci la paura, lo spavento, l'orrore che ogni volta mi si ripresenta quando un ragazzo prova a fare l'amore con me. Rivedo quella scena ogni volta, con quello stronzo che mi mette le mani sul collo mi dice di stare zitta, mentre tu mi sbottoni, ti tiri fuori l'uccello e ti fai una sega su di me. Io ero una bambina, capisci, non sapevo niente di niente e mi fidavo di te. Per me eri come un fratello».

«Ma perché non me ne hai parlato prima?»
«Perché mi facevate schifo, e perché mi vergognavo. Tutte le mie amiche più sveglie a dirmi che non era niente, che i maschi sono così, e invece per me era qualcosa di velenoso, di appiccicoso come la pece. Quel vostro cazzo pugnale ritorna sempre davanti per ferirmi. Avete umiliato il mio corpo e devastato i miei sogni. Ma ce la farò, ce la devo fare. Ma devi stare zitto perdio. 
«Non credevo... rivederti, riparlarti... volevo riuscire a liberarmi da questo peso, da quella che sento come una colpa»
«Vaffanculo, no. Devi stare zitto. Non esiste il perdono in queste cose, dato che nessuna parola o azione potrà mai lavare via la cicatrice che porto. Solo l'oblio. E ci ero quasi riuscita, giuro. Ero salita in auto proprio perché stavo quasi per non ricordare, o meglio, per non sentire come una vergogna i segni che  sono impressi nella mente. Stai zitto quindi, ti scongiuro».
«Va bene».

L'auto riparte. Il profilo scuro delle loro spalle e delle loro teste, viste da dietro, illuminate dai fari di un'auto che seguono, si direbbero quelle di due innamorati, per me che torno a casa con una piccola mela.

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