Fine anni '80. Da poco ho i venti, gli anni, intendo. Terminati studi liceali, professionali (meccanici) e magistrali, ancora indeciso se iscrivermi all'università, vivo una tranquilla disoccupazione, sostenuta e dalla famiglia e da trimestri di lavoro estivo. Pressoché quotidianamente, cammino almeno un paio d'ore, all'ombra e al sole di un castello dantesco, da solo, o meglio: solo no: un libro per mano, sempre.
Ho un'età ed è un periodo in cui sono affascinato, attratto intellettualmente da tutto fuorché dalle scuole, dalle ideologie. Cerco dei maestri e la selezione si attiene a un unico criterio: devono essere degli outsider, non devono rappresentare altro che se stessi.
Da pochi mesi posseggo un'auto mia e al sabato, di pomeriggio, da solo, vado ad Arezzo; mete: la Biblioteca Comunale (vicina alla casa del Petrarca) e la libreria Pellegrini (in piazza San Francesco, dove c'è la Leggenda della Vera Croce di Piero), che da tempo non c'è più, la libreria, al suo posto un ristorante.
Entro e, come sempre, subito mi dirigo verso lo scaffale per me più bello, elegante, colorato: quello degli Adelphi. Avevo iniziato con Ceronetti, Kiš e Brodskij, ma nessuno di loro è un filosofo e, in quella stagione, cercavo un rompighiaccio per la materia. Non può essere un classico, di quelli che si studiano a scuola, né deve essere à la page. Ricordo - male, e forse sbaglio - che su L'Espresso, in un trafiletto, ho letto che un filosofo siciliano ha pubblicato, presso Adelphi, un suo secondo libro, un libro di teologia, Trattato dell'empietà (1987). Lo cerco, ma il volume non è presente. Chiedo lumi a Patrizio, commesso che ha difficoltà a camminare, zoppica un po', (chissà che fine ha fatto), sempre molto gentile con me. Quel nome non gli è nuovo e, con fatica, salendo sullo scaleo, dietro l'opera di Nietzsche, estrae un libro blu scuro, un po' polveroso, senza immagini in copertina, Adelphi comunque, La morte del sole (1982, praticamente erano cinque anni che era lì).
Non mi ricordo un cazzo tanto di quel libro, ma mi ricordo la soddisfazione enorme nel leggerlo durante le mie passeggiate in primavera. Ricordo come lo compitavo sottovoce, non capendoci perlopiù un cazzo di quello che diceva, ma ne ero così affascinato. Capivo e non capivo, intuivo e non. Ogni tanto, incontravo un amico che mi chiedeva: «Ma che cazzo leggi?» E io: «Leggo Sgalambro».
«Il
lezzo che accompagna il lento passaggio dell'uomo al suo cadavere
colpisce attraverso l'olfatto offeso la sua intatta idea. Ma bisogna
capire questo odore che nella storia delle qualità resta ancora
inesplorato. La putrefazione libera dai limiti dell'anima che
imprigiona il corpo e ne distribuisce le quintessenze all'aria.
L'estasi percorre la via degli elementi: idrogeno, ossigeno,
carbonio, azoto... Cos'è l'uno originario se non l'uno
fisico-chimico, con la chimica della decomposizione quale viatico? Il
Dioniso fisico-chimico dove si giacerà in frammenti: acqua, aria,
petali di rosa?»
Manlio Sgalambro, La morte del sole, Adelphi, Milano 1982, pag. 72-73.
2 commenti:
Questo è un blog molto originale: http://m.ilmortopreferito.webnode.it
sì, molto; grazie della segnalazione.
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