«Nessuno conosceva la letteratura e la storia meglio di queste persone, nessuno sapeva scrivere in russo meglio di loro, nessuno disprezzava più profondamente i nostri tempi. Per questi personaggi civiltà non voleva dire soltanto il pane quotidiano e qualche effusione notturna. La loro non era, come potrebbe sembrare, un'altra generazione perduta. Era l'unica generazione di russi che avesse trovato se stessa, l'unica per la quale Giotto e Mandel'štam fossero più essenziali del destino privato di ciascuno. Mal vestiti ma non privi di una certa eleganza, strapazzati dalle mute mani dei loro diretti padroni, costretti a correre come conigli per sfuggire agli onnipresenti cani e alle ancor più onnipresenti volpi dello Stato, scassati, non più giovani, quasi vecchi, conservavano ancora il loro amore per quella cosa inesistente (o esistente soltanto nelle loro teste spelacchiate) che è chiamata “civiltà”. Tagliati fuori senza speranza dal resto del mondo, credevano che almeno quel mondo fosse come loro; adesso sanno che è come gli altri, solo vestito meglio. Mentre scrivo queste parole, chiudo gli occhi e quasi li vedo, in piedi nelle loro cucine scalcinate, con un bicchiere in mano e una smorfia ironica sulla faccia. “Laggiù, laggiù...”. Sorridono amaramente. “Liberté, Ègalité, Fraternité... Perché nessuno aggiunge Cultura?”».
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987 (pag. 39-40)
Riporto questo brano dopo aver terminato di scrivere un articolo didascalico che, forse, domani sarà pubblicato da Giornalettismo. Sarebbe stato bene come epigrafe, ma già l'articolo contiene lunghe citazioni tratte da questo appello. Brodskij è stato (ed è) uno dei miei fari nel mio navigare letterario senza meta. Scomparso prematuramente nel gennaio del 1996, ricordo il dispiacere che provai. E una fortuna. Nel marzo di quell'anno, ero a New York, in vacanza da un mio caro amico che abitava a Manhattan, vicino alla Columbia University. Bene, camminando nei dintorni, davanti alla Cattedrale di Saint John the Divine, mi accorsi da un annuncio che vi si stava tenendo un omaggio funebre al poeta russo. Entrai, e vidi un piccolo gruppo di persone riunito a sentir leggere in inglese ricordi e sue poesie. Tra di essi, se la memoria non m'inganna, mi pare vi fossero Czeslaw Milosz e Charles Simic. Non capii una parola, data la mia scarsa conoscenza dell'inglese, ma fu un'esperienza di immersione, di partecipazione, di essere lì in qualche modo approdato in un mondo che avevo sempre sentito vicino. Ma la realtà chiamava. La sera stessa, l'Istituto Italiano di Cultura offriva un party per la visita di Francesco Rutelli a N.Y. in qualità di sindaco di Roma. Il mio amico, non so come, aveva degli inviti. Plis vizit aur cauntri: si mangiò e bevve alla salute der major stringendogli la mano. L'incanto di estraniamento s'era spezzato: l'Italia è antimetafisica.
2 commenti:
leggo solo adesso questo post molto bello e malinconico sul grande brosdskji. certo che il confronto tra il poeta russo in esilio e quel signore romano che ha mangiato tanto pane e cicoria e che, con somma leggerezza, da anticlericale e mangiapreti che era è diventato oggi più papista del papa, era improponibile.
grazie
linnio
grazie a te Linnio delle tue parole
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