In seguito al mio post di ieri su un articolo di Rondoni, riporto questi brani di Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 1989.
«Fare esperienza del mondo nella maniera in cui se ne può essere debitori a un libro o a una lettera, non presuppone soltanto l'alfabetismo, o il fatto che scritto e libro abbiano già impresso la loro forma sui desideri di accesso al senso; ma presuppone l'idea culturale del libro stesso, nella misura in cui questo non è più semplicemente uno strumento per accedere ad altro. Una volta però che l'esperienza del libro si sia resa autonoma in una propria esperienza di totalità - come esemplarmente nell'epos greco arcaico o nel Libro dei libri - essa comincia a competere con l'esperienza del mondo» [pag. 29].
«Tra i libri e la realtà è posta un'unica inimicizia. Lo scritto si è sostituito alla realtà, nella funzione di renderla - in quanto definitivamente inventariata e accertata - superflua. La tradizione scritta, e infine stampata, si è costantemente risolta in un indebolimento dell'autenticità dell'esperienza. Esiste una sorta di arroganza dei libri in forza della loro pura quantità: già dopo un certo periodo di una civiltà che pratichi la scrittura, essa suscita l'impressione opprimente che nei libri debba esservi tutto e che non abbia senso, nel lasso di vita che è comunque troppo breve, tornare a guardare e percepire un'altra volta ciò che già una volta era stato registrato e portato a conoscenza» [pag. 35].
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