giovedì 11 febbraio 2010

In difesa del pubblico dipendente

Piccola microstoria personale blogghistica. Ho cominciato a frequentare il mondo dei blog grazie a Beppe Grillo, oramai cinque anni fa (o giù di lì). Per un anno non ho fatto altro che seguirlo, pressoché quotidianamente, commentando di tanto in tanto. Gradualmente mi sono da lui allontanato, tanto che non lo leggo più. Una delle ragioni di fastidio, ricordo, era il suo continuo rivolgersi ai politici, in modo sprezzante, chiamandoli in continuazione dipendenti pubblici. Secondo me i politici, regolarmente eletti tramite elezioni democratiche, non sono dipendenti pubblici: sono qualcosa d'altro. Ma di questo più avanti.
Bene, ieri Berlusconi si è rivolto ai magistrati così: «Non si può governare attaccati da pubblici dipendenti quali sono i giudici». Il tono mi pare lo stesso di quello usato da Beppe Grillo, e cioè un tono denigratorio e sprezzante. Se seguissi la logica del comico-politico genovese sarebbe facile replicare a Berlusconi: anche tu sei un dipendente pubblico, in quando anche tu stipendiato per svolgere il tuo lavoro di premier (a proposito: quanto guadagna al mese il primo ministro?).
Ma come dicevo dianzi, a mio avviso i politici non sono dipendenti pubblici. Il dipendente pubblico, infatti, non è eletto dal popolo ma lo diventa, normalmente, superando un concorso per titoli e/o esami (o attraverso particolari graduatorie di merito: disabili, orfani di caduti di guerra o di vittime del terrorismo o della mafia, eccetera). Questo vale per tutte le professioni pubbliche, dal magistrato al necroforo comunale, dal medico di base al poliziotto, dall'insegnante al giornalista Rai, eccetera. Dando per buono (perlomeno nella maggior parte dei casi) che tali concorsi siano stati svolti secondo le regole, tutti i cittadini, avendo particolari requisiti (titoli di studio o altre certificazioni) possono partecipare a qualsiasi tipo di concorso pubblico. Lasciamo da parte per un attimo il fatto che, storicamente, in Italia il servizio pubblico è scadente, che ci sono sprechi, che l'arruolamento è avvenuto e avviene in barba alle regole, e via discorrendo. Il punto è che il dipendente pubblico, una volta assunto, andrà a operare nel suo particolare settore d'azione cercando di svolgere il proprio dovere secondo le regole che la professione esige e solo ad esse dovrà rendere conto. Chiaramente, l'azione della sua professione ha un impatto pubblico: ma se per esempio un medico sbaglia diagnosi, non deve essere il cittadino a giudicare ed, eventualmente, licenziare il medico, ma i criteri e i regolamenti interni, in questo caso, all'azienda sanitaria (il cittadino deve però essere tutelato e risarcito, va da sé).
È chiaro che il politico, quindi, non rientra in questa categoria, perché l'unico criterio di giudizio su di lui ce l'hanno gli elettori (e giudici, se commette - o ha commesso - reati). Con questo però i politici non si sentano deresponsabilizzati, tutt'altro; essi non saranno dipendenti pubblici, d'accordo, ma sono qualcosa di diverso, di tremendamente più impegnativo e moralmente gravoso in rapporto alla comunità: essi sono i primi servi, servitori del cittadino, essi sono i nostri maggiordomi, i nostri governanti. Cos'è in fondo la politica se non l'arte di governare la città, lo Stato? Dei tre poteri fondamentali che regolano la nostra repubblica (lascio da parte il quarto e il quinto, anch'essi capitali), soltanto uno, in realtà, viene eletto dal popolo: il potere legislativo. È il parlamento che poi elegge il governo, o sbaglio? E Berlusconi, Brunetta, la Lega con questa falsa retorica moralizzatrice che tende a far sentire il dipendente pubblico un pezzo di merda sono, riguardo alla posizione di servigio al cittadino, ancora più servi e maggiordomi dell'impiegato all'anagrafe. Per questo, se la politica fosse ciò che dovrebbe essere, fare il politico sarebbe soltanto una missione, una fatica, un impegno ad alto costo che molti fuggirebbero al solo pensiero. La politica non dovrebbe essere un modo per innalzarsi socialmente, ma per abbassarsi (e per questo elevarsi in virtù dei propri buoni servigi). Ma dato che così non è, mi associo a quanto Paolo dice in questo suo post di etologia politica minima, facendogli notare, però, che lo sciopero elettorale alle elezioni politiche (o amministrative) non ha lo stesso effetto quorum del referendum: basterebbe l'un per cento degli elettori per prendere il potere, ahimè!

P.S.
Uh, mi sono accorto che Giglioli (tramite Gramellini) si occupa anch'egli della questione.

1 commento:

paopasc ha detto...

Sperando di non innescare una deriva autoritaria, sarebbe, anche se ci fosse una defezione del 30 o 40% degli elettori, più che un segnale per i politici, che queste cose non le capiscono, un segnale per qualche outsider (perchè ce ne sono? vero?) e per gli elettori stessi, perchè in fondo sono loro (noi) che possiamo cambiare le cose, volendolo.
Piaciuto.