lunedì 11 maggio 2009

Il paradosso monoteista

«È sempre sconcertante vedere delle religioni purificate, educate all'astratto, aggrapparsi caparbiamente a un rettangolo parossistico di quindici ettari [...] Per un monoteista stricto sensu, senza fuoco né luogo, non dovrebbero esistere, in linea di principio, né città sante, né pietre sacre, né luoghi tabù. Né colline più ispirate di altre. Lo spirito, infatti, soffia là dove vuole. La santità del cuore e la memoria della parola dovrebbero dispensare dalla ottusa fissità delle cose inerti. Dovrebbero, ma non è così. La teoria non equivale a un dato di fatto. E la ragione non ha motivo di protestare. A che scopo avere sloggiato Dio dalla natura, mediante la scrittura, se ciò non è servito che a tornare al governo degli uomini per mezzo delle pietre? Se di nuovo bisogna uccidere e morire, come un pagano, per salvaguardare chi un sepolcro vuoto, chi una moschea, chi un muro, il kote, chiamato dai cristiani "del Pianto" - e che cosa c'è di più sorprendente, in effetti, che un muro, a paragone dell'Illimitato? [...] Le superstizioni topografiche hanno delle ragioni che la ragione monoteista dovrebbe ignorare, ma che, volente o nolente, le si impongono».


Régis Debray, Dio, un itinerario. Per una storia dell'Eterno in Occidente, Raffaele Cortina Editore, Milano, 2002, pag. (pag. 136-138)

Nessun commento: