«Il discorso poetico è infatti un discorso continuo; e poi evita ogni cliché e ripetizione. L'assenza di queste magagne è ciò che accellera l'arte e la distingue dalla vita, il cui principale artificio stilistico, se così si può dire, sta appunto nel cliché e nella ripetizione, visto che essa parte sempre da zero. Non stupisce che oggi la società, imbattendosi in questo discorso poetico che continua, si trovi a disagio, come se dovesse salire su un treno in corsa. [...] La poesia non è una forma di intrattenimento, e in un certo senso neppure una forma d'arte, bensì il nostro fine antropologico, genetico, il nostro faro linguistico, evolutivo. Si direbbe che ne abbiamo la percezione da bambini, quando assorbiamo e ricordiamo versi per diventare padroni della lingua. Da adulti, però, desistiamo da questo impegno, persuasi di avere ormai acquistato quella padronanza. E invece ciò che abbiamo padroneggiato è soltanto un idioma, qualcosa che può forse bastare per farla in barba a un nemico, per vendere un prodotto, per chiudere una partita, per meritarsi una promozione, ma sicuramente non basta per guarire l'angoscia o infondere gioia. [...] Leggere poesia, se non altro, è un processo di formidabile osmosi linguistica. È anche una forma assai economica di accellerazione mentale. Entro uno spazio ridottissimo una buona poesia abbraccia un immenso territorio mentale, e spesso, verso l'epilogo, offre al lettore un'epifania o una rivelazione. Questo avviene perché nel processo di composizione un poeta adopera - in genere senza nemmeno saperlo - i due principali modi di cognizione disponibili alla nostra specie: l'occidentale e l'orientale. [...] Il primo asseconda generosamente il razionalismo, l'analisi. In termini sociali, è accompagnato dall'affermazione dell'uomo ed è semplificato in generale dal "Cogito ergo sum" di Descartes. Il secondo si affida principalmente alla sintesi intuitiva, invoca l'autonegazione ed è rappresentato, come meglio non si potrebbe, dal Buddha. In altre parole, una poesia vi offre un campione dell'intelligenza umana all'opera, di un'intelligenza completa, non distorta. È questo che costituisce il fascino essenziale della poesia, anche a prescindere dal fatto che essa sfrutta quelle proprietà ritmiche ed eufoniche della lingua che sono di per sé rivelatrici, e non poco. Una poesia, se vogliamo, dice al suo lettore: "Sii come me". E al momento della lettura voi diventate ciò che leggete, assumete lo stato che la lingua ha in quanto poesia, e la sua epifania o rivelazione vi appartiene, è vostra. Tutto questo rimane vostro anche quando chiudete il libro, perché non potete tornare indietro, al momento in cui non possedevate. Si può ben parlare di evoluzione, mi sembra. Ora, il fine dell'evoluzione non è la sopravvivenza del più efficiente né quella del renitente. Nel primo caso noi dovremmo accontentarci di Arnold Schwarzenegger; nel secondo caso, che comporta un'alternativa più accettabile dal punto di vista etico, dovremmo arrangiarci con Woody Allen. Il fine dell'evoluzione - che ci crediate o no - è la bellezza, che sopravvive a tutto e genera la verità per il semplice fatto di essere una fusione di ciò che è mentale e di ciò che è sensuale. Come sempre avviene agli occhi di chi sta a guardare, non può essere totalmente incarnata se non nelle parole: è questa la premessa di ogni poesia, che è inguaribilmente semantica così come è inguaribilmente eufonica.»
Iosif Brodskij, Dolore e ragione, Adelphi, Milano 1998
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