lunedì 2 marzo 2009

Follie e saggezze teologiche

A proposito di evoluzione e teologia. In margine al Dna di Dio e al Cercare l'ago nel pagliaio.

Innanzitutto, chiariamo subito che cosa sia la Teologia. Essa, come si ricava dalla sua etimologia, è un discorso, uno studio su Dio. Dunque essa è una disciplina che prende in esame qualcosa che di per sé non può essere oggetto di ricerca scientifica (se non nella maniera paradossale che Dawkins giustamente e magistralmente effettua nel suo L'illusione di Dio).

La teoria scientifica dell'evoluzione invece ci dice come stanno, come furono e come, in una certa misura, saranno le cose della vita sul nostro pianeta. La teologia cristiana fatica ad accettare tale dato di fatto perché esso evidentemente scombussola tutto l'impianto sul quale essa poggia i piedi; ma siccome si è innestata nella tradizione filosofica dei greci, prevede all'interno del suo discorso l'uso della logica razionale, e perciò essa non può sottrarsi a un confronto con l'evoluzionismo, pena la ricaduta completa nel ridicolo. Infatti, così come, obtorto collo, fu costretta ad accettare l'eliocentrismo, così ora - ancor più obtorto collo con l'aggiunta di qualche imprecazione - la teologia è costretta a fare i conti con la realtà dell'evoluzione e col suo ancor più rivoluzionario portato circa la natura umana (e divina). Innanzitutto l'evoluzione mette a repentaglio qualsiasi fondamento della Scrittura giudaico-cristiana, giacché mina le basi di ogni possibile creazionismo. Oltre a questo, anche tutti i teorici del disegno intelligente dovrebbero arrendersi perché d'intelligente, di teleologicamente orientato nella storia della vita sulla Terra non c'è traccia; oramai che la vita sia frutto del caso e della necessità pare assodato.
Allora il destino della teologia è completamente segnato? Il "coraggioso" tentativo di Vito Mancuso di conciliare questi due cosiddetti magisteri mi sembra destinato al fallimento; e questo perché tale sforzo cerca d'inglobare il dato di fatto dell'evoluzione dentro il calderone di un finalismo che porta l'uomo a essere il vertice di tutto il "creato". Tuttavia, più si gratta nel fondo della vera ricerca scientifica, più si scopre di quanto siamo sì degli esseri straordinari, ma anche di quanto siamo insignificanti se messi a confronto con l'incommensurabilmente piccolo e incommensurabilmente grande universo che ci sta intorno. È normale quindi considerarci dei prediletti figli di Dio, ma a che pro? A far sussistere un'idea di Dio che la teologia stessa dovrebbe rigettare?
A mio modesto avviso, se la teologia vuole continuare a parlare di un Oltre l'uomo, dovrebbe partire e fondarsi non tanto su un logos impeccabile, da tavolino, che fa discendere tutto il reale dall'alto di un qualsivoglia disegno divino. No, essa deve fondarsi proprio sul fallimento dell'idea di Dio, sulla sua sconfitta, sulla sua morte.

125. L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.

F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, tr. F. Masini, Adelphi, Milano.

La teologia dunque come (se non ricordo male disse da qualche parte anche Sgalambro, mi pare nel suo Trattato dell'empietà, ma devo controllare) criminologia. Dacché siamo nati per credere, bisogna altresì riconoscere, una volte per tutte, che Dio è morto perché noi l'abbiamo ucciso.
Questo celeberrimo aforisma nietzschiano è, a mio avviso, direttamente collegato a questo passaggio de Il gene egoista, dove Dawkins chiarisce, primariamente, cosa il suo libro non sia:

«Io non intendo sostenere una moralità basata sull'evoluzione: dico come le cose si sono evolute e non come noi esseri umani dovremmo comportarci. Sottolineo questo punto, perché so che esiste il pericolo di essere frainteso da quella gente, troppo numerosa, che non sa distinguere tra una dichiarazione di fede nella verità dei fatti e un'affermazione che così i fatti dovrebbero essere. La mia opinione personale è che una società umana basata soltanto sulla legge del gene, una legge di spietato egoismo universale, sarebbe una società molto brutta in cui vivere. Sfortunatamente però, per quanto noi possiamo deplorare una cosa, questo non le impedisce di essere vera. Questo libro cerca soprattutto di essere interessante, ma se volestre ricavarne una morale, leggetelo come un avvertimento. Siate consapevoli che se desiderate, come me, costruire una società in cui i singoli cooperino generosamente e senza egoismo al bene comune, dovete aspettarvi poco aiuto dalla natura biologica. Bisogna cercare di insegnare generosità e altruismo, perché siamo nati egoisti. Bisogna cercare di capire gli scopi dei nostri geni egoisti, per poter almeno avere la possibilità di alterare i loro disegni, qualcosa a cui nessun'altra specie ha mai aspirato».

Richard Dawkins, Il gene egoista, tr. G. Corte, A. Serra, Mondadori, Milano.

Ecco da dove, secondo me, una seria teologia dovrebbe partire. Ma a questo punto il suffisso Teo, avrebbe ancora un senso? Non basterebbe un serio e onesto discorso sull'essere umano?

P.S.
L'uomo folle è l'unico teologo oggi possibile; la follia è l'unico orizzonte della teologia.

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