martedì 2 marzo 2010

La nostra ossessione

Il brano che riporto stasera merita un'introduzione. Innanzitutto, esso è ispirato da questo post di Fabristol («Che succede nella blogosfera?») dov'egli riporta alcune impressioni preoccupate sulla situazione blog.
Col mio contributo non voglio entrare tanto nel merito della questione (anche se concordo molto con quanto commenta Alex): voglio solo dare la mia versione. Secondo me essere blogger significa scrivere, leggere, visionare (pressoché quotidianamente) una parte di realtà (quella che ti interessa). Tentare di decifrarla, di penetrarla, di possederla. La realtà (anche una parte, in fondo) ti viene incontro, proteiforme, sfuggente, sempre pronta ad ingannarti, a portarti fuori strada, soprattutto quando indossa le vesti del potere politico, economico, religioso, mediatico. Pensare, meditare su di essa è, per me, una sorta di difesa, di immunizzazione, di tenuta per non diventare complemente prigioniero. Prigioniero mentale, beninteso. Certo, la realtà non cambia di una virgola, ma io la virgola l'ho messa, un paletto, un segno, un punto, una croce. Ci sono, mi manifesto e ascolto. Sono ascoltato, esisto. E so che il mio ascoltare fa, in qualche modo, esistere gli altri che, come me, sono qui ad esistere, a resistere.
E ora il brano, un po' lungo, ma ne vale la pena. So ch'è una forzatura, ma vi prego di leggerlo pensando che Jaga (una delle amanti dell'harem di Zuckerman) sia una parte, (quella parte!) di realtà a cui sopra accennavo. E che Zuckerman siamo noi, sdraiati, con lei sopra a muoversi e noi qui ad ascoltare, a capire, a tentare di ricavare materiale per scrivere, e non solo.

«[Jaga] “Conosco gli scrittori. Magnifici sentimenti. Ti trascinano via con i loro magnifici sentimenti. Ma i sentimenti e le sensazioni scompaiono rapidamente non appena tu smetti di stare in posa per loro. Una volta che ti hanno capito e messo per scritto, tu sparisci. Tutto quello che danno è la loro attenzione.”
[Nathan Zuckerman] “Potrebbe andar peggio.”
[Jaga] “Oh sì, tutta quella attenzione. È piacevole, per il modello, fin che dura.”
[Nathan Zuckerman] “Cos'eri in Polonia?”
[Jaga] “Te l'ho detto. La donna più brava del mondo a innamorarsi dell'uomo sbagliato.”
E ancora una volta gli offrì di mettersi in qualsiasi posa che a lui piacesse, e l'eccitasse, per penetrarla.
[Jaga] “Vieni come ti pare e non stare ad aspettarmi. Sempre meglio, per uno scrittore, che altre domande.”
E cos'è meglio per te? Era difficile usarle la gentilezza di non fare domande. Jaga aveva ragione riguardo agli scrittori: Zuckerman aveva pensato fin dal principio che, se solo lei gli avesse raccontato abbastanza, egli avrebbe potuto ricavarne materiale per scrivere. Lei lo insultava, lo vituperava, al momento del commiato certe volte era tanto arrabbiata che faceva fatica a trattenersi dal colpirlo. Voleva crollare ed essere tratta in salvo, eppoi voleva essere eroica e prevalere, e sembrava odiarlo soprattutto perché lui le rammentava - semplicemente assorbendo tutto - che non poteva riuscirle né l'una né l'altra. Scrittore in fase calante, Zuckerman faceva del suo meglio per restare impassibile. Non bisogna confondere il piacere col lavoro. Stava lì per ascoltare, lui. L'ascolto era l'unica cosa che poteva prodigarle. Loro vengono - pensava - e mi raccontano cose, e io ascolto e ogni tanto dico: “Forse capisco più di quanto credi.” Ma non v'è alcuna cura ch'io possa offrire per guarire i mali di tutte quelle che attraversano la mia strada con il loro fardello sulle spalle e con i loro dolori individuali. È mostruoso che tutte sofferenze del mondo siano buone per me perché portano acqua al mio mulino; che tutto quello che posso fare, messo di fronte alla storia di chiunque, sia desiderare di trasformarla in materiale; ma se questa è la tua ossessione, la tua ossessione è questa*. C'è un lato demoniaco in questo mestiere, di cui la commissione per il Premio Nobel non parla molto. Sarebbe bello, specie in presenza di bisognosi, aver dei motivi puri e disinteressati come chiunque altro, ma, ahimè, non è così. L'unico malato che lo scrittore cura con la sua scrittura è se stesso».

Philip Roth, La lezione di anatomia, Bompiani, Milano 1986

*Grassetto mio

6 commenti:

Anonimo ha detto...

E' un bellissimo post Luca. Davvero.
Soprattutto quando dici:

"Secondo me essere blogger significa scrivere, leggere, visionare (pressoché quotidianamente) una parte di realtà (quella che ti interessa). Tentare di decifrarla, di penetrarla, di possederla. La realtà (anche una parte, in fondo) ti viene incontro, proteiforme, sfuggente, sempre pronta ad ingannarti, a portarti fuori strada, soprattutto quando indossa le vesti del potere politico, economico, religioso, mediatico. Pensare, meditare su di essa è, per me, una sorta di difesa, di immunizzazione, di tenuta per non diventare complemente prigioniero."

Condivido quello che dici. Io ho sempre pensato che per molti di noi la scrittura è una sorta di terapia per non impazzire in questo mondo. Decifrare... come se i significati del mondo fossero criptati. Anzi no, niente codici che presuppongono un Disegno Intelligente. Il mondo non ha senso, siamo noi a dargli un ordine.

Luca Massaro ha detto...

Grazie Fabri, ma se qualcosa di buono ho detto il merito è del tuo stimolante post (e non è la prima volta che sottoponi il tuo blog a simili pensieri metabloggologici).
:-)

paopasc ha detto...

Sul valore auto-terapeutico dello scrivere non si discute. Però, a mia conoscenza, non ne è stata fornita una spiegazione universale.
La mia idea fissa è sempre quella (sì va beh anche quella): così come immobilizzare un organismo genera uno stress che si risolve solo lasciandolo di nuovo libero di agire, allo stesso modo, quel mondo mentale della coscienza che Damasio definisce estesa e che si manifesta principalmente con il linguaggio simbolico, ha necessità di agire ogni qual volta si senta costretto da fantomatici legacci.
In questo mondo, anche le idee avversate, i concetti criticati, si comportano come i legacci del nostro corpo fisico, dai quali occorre liberarsi con un atto, tipico di quel mondo mentale, e quindi puramente virtuale. Sul perchè questo debba esser fatto pubblicamente, dirò che è solo dal feedback dell'altro che noi riconosciamo l'avvenuta liberazione, quasi come se la semplice liberazione dell'urlo del pensiero dal corpo non liberasse il laccio a sufficienza.
(Questo fatto ha a che fare con i neuroni specchio e la loro capacità di farci provare empatia sull'altro. Quando l'altro risponde assecondandoci ci rimanda un feedback che ci conforta dell'avvenuta liberazione. Quando riapro ne riparlo).

Anonimo ha detto...

Philip Roth è un genio. Ma è anche uno degli scrittori più angoscianti che mi sia mai capitato di leggere.

Io invece non sono un genio, sono solo un giornalista-blogger che crede nel dovere/piacere di informare, e ti ho inserito il tuo blog fra i "siti amici di MilleOrienti".

Cura ut valeas,
Marco

Anonimo ha detto...

Philip Roth è un genio. Ma è anche uno degli scrittori più angoscianti che mi sia mai capitato di leggere.

Io invece non sono un genio, sono solo un giornalista-blogger che crede nel dovere/piacere di informare, e ti ho inserito il tuo blog fra i "siti amici di MilleOrienti".

Cura ut valeas,
Marco

Luca Massaro ha detto...

grazie Marco, onoratissimo.
Seguo da un po' (dalla vicenda Sartori) il tuo pregevolissimo blog, fonte di seria e ben curata informazione.
Saluti