Durante il giorno, andando in bagno per i soliti, comuni a tutti, bisogni fisiologici, ho pensato spesso alla sparata di Celentano sui giornali cattolici Avvenire e Famiglia Cristiana. Ho pensato, cioè, a come si potrebbe commentare un giudizio del genere, se prendere le difese dell'uno o degli altri, insomma, di valutare un po' la cosa.
Sono addivenuto a ciò (mi sono lavato le mani, scrivo).
Celentano potrebbe aver ragione nel dimandar chiusura di sunnominata stampa cattolica e proprio in virtù delle accuse che egli lancia, queste:
«Quello che non sopporto è che [Avvenire e Famiglia cristiana] non parlano mai della cosa più importante e cioè del motivo per cui siamo nati. Quel motivo nel quale è insito il cammino verso il traguardo che segna non la fine dell'esistenza, ma l'inizio di una nuova vita. Preti e frati non parlano mai del Paradiso come se l'uomo fosse nato soltanto per morire ma non è così. Siamo nati per vivere. Preti, siete obbligati a parlare del Paradiso se no vuol dire che abbiamo solo questa vita».
Celentano potrebbe aver ragione, dicevo, ma ce l'ha soltanto nella premessa, non nella conclusione, dacché i preti non possono, anche volendo, parlar di paradiso, ovvero potrebbero, però dovrebbero parlarne un po' come ne parlano quei predicatori invasati ammericani, o nelle madrasse dove s'insegna lo jihad - e questo (i preti cattolici lo sanno) non troverebbe più tanto ascolto nella nostra Italia postmoderna.
L'aldilà è stato spinto via dal nostro immaginario di vivi, e il paradiso preferiremmo viverlo qui in terra, almeno per un po'. Per questo, per accontentare Celentano, l'unico modo serio e concreto che avrebbero tali testate sarebbe di trasformarsi in riviste in cui s'illustrano tecniche del godimento hic et nunc, alternative alla missionaria, aceto balsamico per condire i nostri organi sessuali, qualche goccia di piacere, brani di letteratura intensa, musica sacra e profana degna, panorami, colori, mani che s'intrecciano, sorrisi, culi, una bella pastasciutta fumante quando hai fame, un pinot noir, un bacio, il piacere dello stare insieme, una tetta, una luna...
Queste cose Famiglia Cristiana e Avvenire non possono descriverle perché hanno da pensare ad altro, a come educare il gregge, confonderlo, distrarlo, soprattutto dedicarsi a quello che devono o non devono fare, obbligatoriamente, coi loro organi riproduttivi e il loro dolore.
Una Corradi, un Rondoni, un Don Sciortino cosa vuoi che dicano se non affidarsi a delle promesse incerte di un predicatore che, forse, fu fatto risorgere politicamente, per togliersi di torno i suoi seguaci che potevano ribellarsi al potere costituito? Chiamo a soccorso Freeman. Leggiamo:
«Interessante il ruolo di Caiafa nella risurrezione. Fu, in sostanza, l'artefice della crocifissione. Difficile, quindi, che abbia improvvisamente perso qualsiasi interesse per il movimento di Gesù. Del resto, il racconto di Matteo secondo cui i sacerdoti assunsero direttamente il controllo del sepolcro fornisce l'avallo delle Scritture al loro probabile coinvolgimento. Caiafa ha ormai mostrato ai Romani di non essere tollerante con i disordini; d'altra parte teme di perdere l'appoggio dei suoi correligionari se sparge altro sangue. Restare un'autorità credibile sia agli occhi dei Romani sia dei giudei richiedeva un accorto bilanciamento. Un'idea intelligente poteva essere tarpare le ali a qualsiasi movimento emergente in memoria di Gesù rispedendone i seguaci a casa.
Rimuovere il corpo, accertarsi che il sepolcro restasse scoperchiato e vuoto, diffondere il messaggio, servendosi di “un giovane”, che Gesù sarebbe riapparso in Galilea poteva essere una soluzione del problema senza ulteriori brutalità né spargimenti di sangue. Se il piano avesse funzionato, i discepoli, traumatizzati, sarebbero semplicemente usciti dalla sua giurisdizione per ricadere sotto quella di Erode Antipa. Una volta che avessero sgombrato il campo per Caiafa sarebbe diventato del tutto indifferente che continuassero o meno a credere in Gesù. Per lui, il punto più interessante era si trovassero nell'impossibilità materiale di causare disordini a Gerusalemme, rovinando il suo prestigio agli occhi dei Romani. Inoltre, il destino del corpo di Gesù non sarebbe interessato a nessuno finché i discepoli fossero stati convinti della sua successiva comparsa sotto qualche forma in Galilea. Per i sacerdoti era importante sottolineare che Gesù non era più fisicamente presente, bensì “risuscitato”, altrimenti si sarebbe continuato a mormorare che il suo corpo doveva trovarsi da qualche parte a Gerusalemme. C'era il precedente di Elia»*.
*Charles Freeman, Il cristianesimo primitivo, Einaudi, Torino 2010 (traduzione di Piero Arlorio, pag. 43).